CINEMA – Corpo e anima (Testről és lélekről, di Ildikó Enyedi, Ungheria 2017)

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canCorpo e anima (Testről és lélekről, di Ildikó Enyedi, Ungheria 2017)

di Pierpaolo De Pazzi

Valutazione 4 / 5

Endre, il taciturno e solitario direttore finanziario di un macello, pare ormai aspettare solo la vecchiaia, bloccato da una serie di delusioni, come lo è il suo braccio da una paralisi. Maria, ragazza timidissima, colpita da un trauma infantile, ama vivere nell’ombra e comincia a lavorare nello stesso macello, al controllo qualità. Non sembra esserci un posto peggiore per incontrarsi, né due timidezze più inavvicinabili, eppure le loro anime sono destinate ad unirsi.

Arriva da una delle migliori cinematografie d’Europa, e dalla regista che ci aveva già regalato il prezioso Il mio XX secolo (premio per la miglior opera prima a Cannes nel 1989), questo film, Orso d’oro a Berlino 2017.

È un film minimalista, che procede per astrazione e sottrazione, puntando al programmatico contrasto tra anima e corpo, sogno e realtà, bianco e rosso, immacolati paesaggi innevati e insanguinati corridoi del macello, amore e morte. In questo è supportato dalla capacità di attori, regista, direttore della fotografia, di concentrarsi su piccoli particolari, indugi ed esitazioni, sguardi e silenzi. Basta, allora, un movimento di un piede che si ritira dalla luce per dire tutto su Maria, più di tante parole e spiegazioni, che, appunto, non ci vengono fornite.

D’altra parte, il cinema, rispetto ad esempio al teatro, ci porta vicinissimo al personaggio, ci fa vivere il suo tempo, ci permette di vederne ogni minima gestualità, oppure ci fa esplorare il mondo con i suoi occhi, ci fa vedere in dettaglio dove vive e quali sono gli oggetti che usa, che in qualche modo manifestano una parte della sua personalità: è questa la sua magia.

La dicotomia fondamentale del film, corpo e anima, sembra invalicabile, e le due solitudini paiono condannate a restare incomunicanti e lontane, finché un non meglio precisato reato, probabilmente un furto, non chiama in campo una psicologa, che sottopone ad un’intervista tutto il personale del mattatoio. È lei il deus ex machina che, con una domanda del suo questionario, finisce per rendere consapevoli i due protagonisti del fatto che stanno facendo da tempo sogni uguali, ogni notte: sono una coppia di cervi, che vive in un bosco innevato, solitario e magico.

Esserne consapevoli muterà, lentamente, le loro vite e finirà per unirli e far loro vivere nella realtà quel sogno: alla fine del film la radura incantata nel bosco sarà, infatti, vuota.

Questo apologo favolistico sa neutralizzare anche il pericolo dell’eccesso di freddezza, che, pur consentendo di rendere sopportabili le realistiche scene girate all’interno del mattatoio, potrebbe esserne il vero limite, allontanando dalla nostra empatia i personaggi. Ecco invece che, verso la fine del film, è inserita nell’azione una bellissima canzone (What He Wrote, di Laura Marling), che non resta mera colonna sonora ma è scelta da Maria che l’ascolta, come parte di un’autoterapia consigliata dal suo psicologo. Sembra che il calore della voce, la dolcezza e la nostalgia malinconica di questa musica riescano delicatamente a entrare nello stesso tempo in Maria e in noi spettatori, che l’ascoltiamo, immedesimandoci con lei.

Restare umani vuol dire sapersi immedesimare con un altro, anche con un animale, come ricorda il direttore Endre ad un operaio del macello, come ricorda a tutti noi l’aneddoto del cavallo di Torino di Nietzsche (e del film omonimo dell’ungherese Béla Tarr).

“In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.”