Un dolce un po’ amaro

| | |

Kugelhupf, Cuguluf, Kugluf: materia perfino di poesia

La guerra, una torta di riso e una domestica slovena…

di Roberto Curci

 

Cuguluf, recte Kugelhupf. Chiunque viva da queste parti sa di che cosa si tratta. E magari già assapora. Al tradizionale dolce (ufficialmente natalizio) si è ispirata quest’anno anche la triestina Contrada, aprendo la propria stagione teatrale – come da tradizione appunto – con un nuovo copione dialettale di Alessandro Fullin, che col suo Jane Austen Cuguluf  ha compiuto un ironico delitto di lesa maestà letteraria (con lo stesso titolo è in libreria l’omonima storiella in prosa, edita da Mgs Press).

Cuguluf, dunque. Ma nella memoria di chi scrive resta piuttosto annotato un precedente dall’ancor diversa grafia: Kugluf. Cronache da una marca di confine. Di che si tratta? Del titolo di una sorta di poemetto in prosa d’intonazione “epica”, un librino edito da Viennepierre nel 1995 ma ancor oggi reperibile. L’autore? Gian Luigi Falabrino, nato a Genova ma vissuto a Trieste negli anni decisivi dell’adolescenza e della prima giovinezza, dal 1939 al 1950, e a Trieste sempre sentimentalmente legato, sino alla fine (26 luglio 2010, giorno del suo ottantesimo compleanno).

Considerati gli anni travagliati in cui Falabrino qui visse, quelli della guerra e dell’immediato dopoguerra, è facile capire come in Kugluf egli abbia travasato le esperienze di vita, le situazioni, i personaggi che gli capitò di incrociare e di “fotografare” in prima persona: la prima domestica a Trieste, Danila, «diciott’anni, slovena, nata a Villa Decani»; un’altra domestica, Giovanna Zontar, «slovena, nata nell’Ottocentonovanta, a Trzic, vicino a dove adesso passa il confine con l’Austria»; l’insegnante ebrea di via del Lazzaretto Vecchio «non so per quale sorte sfuggita alla morte nazista».

Ragazzino, Gian Luigi vede, sente, percepisce. Molti anni dopo, da uomo fatto e più che maturo, trasferirà questi ricordi sulla carta, articolandoli in versi asciutti che hanno la potenza di un personale, angoscioso vissuto. Poesia in prosa, ricca di inserti linguistici dialettali, tedeschi e sloveni, legata a un momento storico che, tra bombardamenti alleati, occupazioni nazista, titina e alleata, è prodigo di emozioni e paure. Né il ragazzino, proprio per ciò già cresciuto sotto il profilo politico-culturale, si sottrae nel maggio ’45 – quindicenne – al compito di diventare “corriere” di fogli clandestini destinati alla resistenza anti-titina.

è Giovanna Zontar il primo personaggio in cui ci s’imbatte in Kugluf. Già umile serva a Vienna e al Cairo, è la domestica di casa Falabrino (al numero 8 di via  Murat) che nell’ultimo anno di guerra «faceva la povera torta di riso nella forma che era stata del Kugelhupf di cioccolata, che lei chiamava Kugluf, surrogato di nome per un surrogato di dolce. Insieme mangiavamo pane e lardo, e sembrava che mai la guerra dovesse finire…».

Ancor prima le era capitato di ascoltare Radio Trieste, allora in mano nazista, che «trasmetteva il notiziario anche in sloveno, per cercare simpatie fra gli antichi sudditi».

Allora vedemmo Giovanna Zontar piangere:

“Xe venti ani che no podevimo parlar nostra lingua,

disse nel suo duro triestino, e anca carsoline

che vien a vender late in zità finiva in cheba

se i le cucava a parlar per sloveno tra lori.

E ora xe prima volta che sento mia lingua per radio”,

diceva Giovanna Zontar piangendo,

perché perfino i tedeschi un’ingiustizia

riparavano dei miei connazionali.

Kugluf l’avevano soprannominata i ragazzi che si ritrovavano a giocare nella campagneta dove un tempo sorgeva Villa Murat e dove poi sarebbero sorti i campi di tennis di Campo Marzio. E alla madre di Gian Luigi, “sempre paurosa, sempre preoccupata”, diceva:

«No la stia bazilar, chi bazila mori».

 

Resta da dire chi sia stato Gian Luigi Falabrino, uomo dalle tante facce e dalle tante vite, intellettuale a tutto tondo. Laureato in Filosofia con una tesi su etica e politica in Benedetto Croce, ha operato sempre nel campo della pubblicità, da copy writer in su: una carriera che lo ha portato al vertice dell’UPA, Utenti Pubblicità Associati, e alla guida di uno studio di comunicazione d’impresa. Sua una ponderosa e affascinante storia della pubblicità italiana intitolata Effimera & bella, uscita da Gutenberg nel 1990 e ristampata nel 2001, con ritocchi e aggiunte, da Silvana Editoriale: una bibbia imprescindibile. Ma è stato autore anche di Pubblicità serva padrona, riflessione “dall’interno” sui protagonisti, la storia e i retroscena del mondo della comunicazione, nonché di due curiosi e deliziosi mini-libri: A dir le mie virtù e I comunisti mangiano i bambini, sulla storia degli slogan pubblicitari e di quelli politici.

Forte di un eclettismo di alto livello, sintomo di una curiosità culturale a tutto campo, Falabrino ha scritto anche saggi su Ionesco e Osborne, libri di poesia e di letteratura per l’infanzia. Ha fondato e diretto, dal 1959 al ’67, la prestigiosa rivista Diogene, ha fatto parte del comitato di redazione di Critica sociale e ha scritto articoli per molti giornali e riviste, tra cui Il Mondo di Pannunzio.

A Trieste e alla “marca di confine” è rimasto sempre vicino («Posso dirmi triestino come Stendhal si è sempre dichiarato milanese» ha detto in un’intervista). E di Trieste ha compreso bene le inquietudini, le ansie, le lacerazioni. Ne ha scritto ripetutamente, proponendo addirittura nel 1954, prima della cosiddetta seconda redenzione, una sua ipotesi sulle Possibili soluzioni del problema del Territorio Libero di TS (articolo apparso sulla rivista dell’Istituto geografico militare e premiato come miglior saggio geografico-politico).

Nel tempo Falabrino ha continuato a interessarsi, con occhio particolarmente attento e sensibile, alle vicende triestine: ha scritto sul trattato di Osimo, e ha dedicato acuti interventi alle questioni dell’Istria, dell’esodo e delle foibe, ma anche ai problemi della Jugoslavia e dell’ex Jugoslavia: l’ultimo, apparso sul Mondo nuovo nel ’95, s’intitolava “Si muore per i morti”.

 

************************

  1. S. Un post scriptum che non c’entra affatto ma forse buono a sapersi. Nella campagneta di Campo Marzio in cui ruzzavano Gian Luigi e compagni assisteva ai loro giochi, ai quali però mai si univa, una ragazzina scortata da un’istitutrice. Falabrino seppe poi come si chiamava: Franca Luccardi. Cresciuta come pittrice, sarebbe stata lei negli anni Cinquanta il grande amore di Pier Antonio Quarantotti Gambini: una storia dal finale amaro che lo scrittore volle fissare sulla carta in quel libro accorato che è Racconto d’amore. Poesia, anche questa.

 

Gian Luigi Falabrino