CONVIVERE A TRIESTE 2/2

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Pierluigi Sabatti

 

Parlando degli sloveni ho già introdotto il tema del grande cambiamento. E qui ci aiuta Piero Purini, storico triestino, con il suo Metamorfosi etniche, edizioni Kappa Vu. Trieste nel 1913 conta circa 240 mila abitanti, ovvero più di quanti ne abbia oggi. È l’anno del suo massimo sviluppo nell’era austro-ungarica; il porto riprenderà solo negli Anni Sessanta dello scorso secolo gli stessi livelli di traffico di allora. Dal punto di vista etnico, come abbiamo visto, la città era molto diversa da come si sarebbe presentata dopo il conflitto, che scoppia il 28 luglio 1914 e i soldati di leva sono costretti a partire per il fronte (gli italiani vengono mandati prevalentemente sui Carpazi e sul fronte serbo a sud).

Quando è chiaro che l’Italia entrerà nel conflitto, i “regnicoli” (cioè gli italiani immigrati a Trieste dal regno dei Savoia) se ne vanno. Fino al 23 maggio 1915, giorno in cui vengono bloccate le linee ferroviarie con l’Italia, lasciano la città circa in 35 mila, ma ne restano ancora parecchi, tanto che le autorità austriache ne rimpatrieranno via Svizzera altri 9 mila (donne, vecchi e bambini) e ne manderanno al confino o all’internamento circa 5 mila (uomini in età di leva, donne e bambini).

Gli italiani rimasti a Trieste sono solo quelli che hanno in tasca il passaporto imperiale, di questi 1.047 scapperanno per arruolarsi nel Regio esercito, con 182 caduti (tra loro gli scrittori Scipio Slataper e Carlo Stuparich).

I coscritti triestini nelle forze armate imperiali e regie si aggirano invece sui 25 mila, ma un calcolo preciso non è mai stato fatto. Assieme a quelli che scappano per combattere dall’altra parte del fronte, ci sono anche quelli che se ne vanno per non impugnare le armi: anarchici, socialisti internazionalisti (Trieste, città di cantieri navali e di fabbriche aveva una fortissima componente rossa), pacifisti.

Dopo l’armistizio del 4 novembre 1918 nulla sarà mai più come prima. Nel 1919 rientrano in città i cosiddetti “regnicoli”, ma assieme a loro immigrano anche molti italiani attratti dalle nuove opportunità che offre la città conquistata. Si tratta di quasi 40 mila persone, solo 25.500 delle quali erano residenti nell’area prima del 1915. Troveranno occupazione soprattutto nel pubblico impiego, prendendo i posti lasciati liberi dal personale mandato via per motivi etnici.

La pubblica amministrazione nel periodo austriaco, per una diffidenza nei confronti della componente italiana, che era maturata nella corte viennese dopo la sconfitta a Solferino (1859, nella seconda guerra di indipendenza italiana), aveva assunto personale tra i gruppi etnici maggiormente Kaisertreu (fedeli all’imperatore): poste, finanza, dogana, gendarmeria, porto, ferrovie avevano in prevalenza dipendenti non italiani. Per capire le dimensioni del fenomeno vediamo i ferrovieri, che erano in totale 1926: 1694 slavi (soprattutto sloveni, ma anche croati) e 80 tedeschi e non è detto che i 152 rimanenti fossero tutti italiani. Dopo la guerra, tra licenziati e trasferiti, non si è più nemmeno in grado di far funzionare i treni e bisogna chiamare in fretta e furia personale dal resto d’Italia. Comincia la citata “bonifica etnica” e un lungo e poco conosciuto esodo degli slavi dall’area diventata italiana con il Trattato di Rapallo. Se volete conoscere questa vicenda da un versante letterario, che molto bene la esprime, vi rimando a Franziska di Fulvio Tomizza.

Comunque il primo gruppo etnico a essere espulso da Trieste sono i tedeschi, circa 12 mila, terzi per consistenza in città, dopo italiani e sloveni. Si scatena una vera e propria caccia alle streghe contro i “non patrioti”, arrivando alla delazione nei confronti di chi parla tedesco in privato, mentre una rumorosa campagna di stampa chiede di sostituire nelle scuole l’inglese al tedesco come lingua d’insegnamento, ma anche di rimuovere monumenti, cambiare i nomi alle vie e altri provvedimenti. Da leggere il saggio di Diana De Rosa La guerra dei monumenti – 1915-1918.

Va sottolineato che il comandante militare, il generale Carlo Petitti di Roreto, si oppone fieramente alle discriminazioni, che invece avranno via libera da quando Trieste non sarà più zona di occupazione militare e sarà ufficialmente annessa all’Italia nel 1920. Vengono presi provvedimenti tesi a favorire la partenza dei tedeschi, vengono chiusi il quotidiano Triester Zeitung, nonché chiese, scuole e istituzioni culturali. Nel consiglio di amministrazione della Camera di commercio i membri tedeschi, greci, e anche qualche italiano del posto, sono sostituiti con personale arrivato dall’Italia.

Secondo voci, peraltro non verificabili, come ammette Purini, da Trieste nel 1919 partono 40 mila persone (tante quante ne arrivano), ma è impossibile capire dove si siano dirette, quanti fossero i tedeschi e quanti gli sloveni, i croati o i serbi. Un dato certo piccolo, ma significativo: su una classe di 40 ragazze del liceo femminile tedesco, ne resta a Trieste una sola. Negli anni Venti la comunità tedesca è ridotta a stento a mille unità.

Se ripulire la città dai tedeschi era stato relativamente semplice, ben diverse sono le cose con la più numerosa comunità slava, della quale ho già parlato.

Di pari passo con le espulsioni, procede l’italianizzazione del territorio: Roma manda nella Venezia Giulia 47 mila tra militari, poliziotti e agenti di custodia, 9 mila circa solo a Trieste. L’immigrazione economica si ferma negli anni Venti a causa della devastante crisi che colpisce Trieste: la città si ritrova a essere declassata da unico porto della parte austriaca dell’impero (l’Ungheria aveva come riferimento Fiume) a porto del tutto marginale del regno d’Italia.

Il fascismo, ovviamente, porterà al parossismo l’opera di italianizzazione: si procede alla snazionalizzazione dei toponimi (Opicina diventa Poggioreale del Carso, tanto per dirne una) e dei cognomi. Si calcola che tra il 1919 e il 1945 siano stati italianizzati circa mezzo milione di cognomi della Venezia Giulia, 100 mila dei quali a Trieste.

Il censimento del 1921 fotografa nella Venezia Giulia una situazione radicalmente diversa rispetto a quella del 1911: gli slavi passano da 466.730 a 349.206, gli italiani da 354.908 a 467.308.

Trieste è completamente diversa dopo la Grande Guerra: 
Joyce, dopo essersi rifugiato in Svizzera, tornerà in città, ma ci rimarrà poco perché non ritroverà più la città plurietnica e plurilinguistica che aveva amato e che lo aveva ispirato.

Trieste diventa per la propaganda fascista il “faro d’italianità di fronte al mondo slavo” ma la città non ha più il ruolo economico di cui godeva precedentemente; come detto è uno dei tanti porti italiani, anche se le grandi opere pubbliche volute dal regime, in città e anche nella vicina Istria, fronteggiano la disoccupazione dovuta anche alla grave crisi mondiale, iniziata nel 1929 in America.

Il “genocidio culturale” nei confronti degli sloveni ha provocato odio e ha fatto nascere la resistenza, che il regime reprime ferocemente con condanne a morte, a lunghe prigionie e al confino comminate dal Tribunale Speciale.

Nel 1938 l’alleanza con la Germania chiede il sacrificio degli ebrei e Mussolini preannuncerà proprio a Trieste le leggi razziali. La città viene così privata di una parte vitale della sua classe dirigente. Un colpo durissimo dal quale non si riprenderà più. Per capirlo basta fare alcuni nomi: Italo Svevo e Umberto Saba nella letteratura, Assicurazioni Generali in Economia, Edoardo Weiss padre della psicanalisi italiana.

Con il crollo del fascismo Trieste viene occupata dai nazisti e inserita la nell’ambito del Terzo Reich, come Litorale Adriatico. Un patto segreto tra Mussolini e Hitler l’assegna alla Germania. Dovrebbero ricordarsene i neo-fascisti di Casa Pound (e i leghisti loro sodali che con abile piroetta sono diventati un partito “nazionale”), che si proclamano paladini dell’italianità di Trieste. I repubblichini di Salò sono soltanto dei crudeli burattini nelle mani dei nazisti. La persecuzione degli ebrei diventa feroce, grazie alla zelante collaborazione di molti triestini, e diventa feroce la lotta ai “banditi”, ai partigiani per lo più slavi, ai quali però si aggiungono elementi italiani. Nasce peraltro in città anche la resistenza italiana.

La comunità ebraica verrà quasi cancellata in quegli anni funesti. Oggi gli ebrei a Trieste sono poco più di 600, la grande e bella sinagoga di piazza Giotti testimonia della loro passata grandezza.

Con la fine della guerra non finisce il dramma della città che subisce una pesante occupazione da parte delle truppe di Tito. La Jugoslavia fa di tutto per arrivare per prima a liberare Trieste in funzione di una sua annessione. L’occupazione dura quaranta giorni e comporta l’eliminazione o la prigionia per alcune migliaia di persone, non soltanto militari, carabinieri, finanzieri ex fascisti e ex collaborazionisti dei tedeschi ma anche esponenti del Comitato di liberazione nazionale, che si battevano perché Trieste ritornasse italiana.

La città viene poi occupata dagli anglo-americani per nove lunghi anni in cui la sua appartenenza rimarrà in bilico. Sono anni effervescenti dal punto di vista culturale ed economico (la città è abbondantemente foraggiata dall’Italia e dagli stessi occupanti), gli sloveni vedono riconosciuti i loro diritti e ricostruiscono il loro tessuto economico e culturale. Nel 1954 Trieste ritorna all’Italia. Ma la città conosce una grave crisi. Non ci sono più le sovvenzioni italiane e degli alleati, c’è un soffocante confine che passa a otto chilometri da piazza dell’Unità d’Italia, c’è da una massa di profughi dell’Istria e Quarnero, che hanno dovuto lasciare le proprie case e la propria terra, e ci sono migliaia di triestini che la abbandonano per cercare fortuna altrove, in Australia o nelle Americhe.

Nel corso degli anni, l’Italia sostiene l’economia pubblica e la città in parte si risolleva, gli odi e le divisioni si stemperano, il confine diventa sempre più permeabile, fino a sparire.

Oggi la città presenta una composizione etnica simile a quella degli inizi del ‘900 oltre a italiani e sloveni finalmente pacificati che si integrano nel rispetto delle rispettive culture e memorie, la Comunità ebraica, pur esigua, è un elemento fondamentale nella cultura cittadina con la sua scuola, con il suo museo, con le sue istituzioni religiose e laiche. Ma la terza componente etnica triestina di oggi è quella serba, fuggita dalle guerre balcaniche degli anni ’90, che ha trovato pane e sicurezza. E poi ci sono gli immigrati (sì proprio loro) da una molteplicità di Paesi e si tornano a sentire per strada e sugli autobus tante lingue diverse che parlate assieme che formano una nuova armonia. E gli ultimi fatti di cronaca della guerra tra bande kosovare e serbe sono più un problema sociologico che etnico, con buona pace di quegli avvoltoi che speculano sulla paura.