Carolus Cergoly

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Ricordando un triestino scomodo, polemico, controcorrente

di Liliana Bamboschek

 

Carolus Cergoly occupa un posto a parte nella poesia triestina, conosciuto in Italia e apprezzato all’estero è uno scrittore di dimensione europea ma è stato, e rimane tuttora, piuttosto emarginato nella sua Trieste. Era indubbiamente un personaggio scomodo, polemico, controcorrente. L’anno scorso il trentesimo anniversario della sua morte è passato in sordina ma, poiché nel 2018 ricorrono 110 anni dalla nascita, mi auguro che ci potrà essere finalmente l’occasione buona per parlare di questo artista senza pregiudizi.

In realtà non si può definirlo uno scrittore dialettale: è il vero e proprio creatore di un linguaggio originale che, avendo come base il dialetto triestino, accoglie anche elementi linguistici degli altri idiomi dell’impero austroungarico. Lui stesso si definiva un poeta “mitteleuropeo” in lessico triestino ma, anche se il termine è dopo tutto solo un’etichetta, si avvicina allo spirito sovranazionale, plurilinguistico che anima profondamente i suoi scritti.

Carlo Luigi Cergoly Serini, nato a Trieste il 20 settembre 1908 e morto il 4 maggio 1987, apparteneva a un casato di nobiltà ungaro-slava con radici nei vari paesi dell’impero (adottò anche il cognome della madre croata Zrinski italianizzandolo in Serini). Suo fratello era quel Guido Cergoli ben noto e molto amato a Trieste, eccezionale pianista e creatore subito dopo l’ultima guerra della famosissima Orchestra Cergoli, vero gioiello ritmo-sinfonico della nostra radio locale, in seguito diventato dirigente alla Rai di Roma.

Fra le due guerre Carolus si nutre di Svevo e di Saba, frequenta Joyce e in particolare suo fratello Stanislao. Ma l’esperienza fondamentale per forgiare il suo linguaggio gli viene dall’adesione al futurismo. Negli anni ’20 fonda il Circolo del Magalà e nel 1928 pubblica la raccolta poetica Maaagaalà. Con le “parole in libertà” inventa arditi collage poetici, crea immagini simultanee con sfumature ironiche e clownesche: un autentico pastiche che si evolverà in seguito verso il suo personale lessico. Durante la seconda guerra mondiale partecipa alla campagna di Russia nel ’42, poi è partigiano con Giustizia e Libertà e quindi con le Brigate Garibaldi. Nel ’45 diventa redattore del giornale Il nostro avvenire, poi fonda Il corriere di Trieste che dirigerà fino al 1953; in seguito aprirà la Galleria d’arte Ai Rettori. Sarà Pasolini a scoprirlo e presentarlo alla critica italiana in un articolo su Il Tempo. Raggiunge una platea nazionale con la raccolta Ponterosso (Guanda, 1976), l’edizione completa delle sue poesie Latitudine Nord è del 1980 nella collana Lo Specchio di Mondadori. La piena notorietà gli verrà però da uno dei suoi tre romanzi, Il complesso dell’imperatore, un collage di ricordi, di fantasie in cui esprime tutta la nostalgia dell’impero asburgico, quel mosaico di popoli, lingue, culture che aveva come centro la figura dell’imperatore: un mondo irrimediabilmente scomparso.

Molti e qualificati i giudizi critici sulla poesia di Cergoly a cominciare da James Joyce: “La tessitura del suo dialetto è veramente muscolosa”.

Natalia Ginzburg: “La poesia di C. sta appiattata in un angolo come un uccello su una roccia. Di tanto in tanto si stacca di là per volare…” Pierpaolo Pasolini:” C. ha in Trieste il suo habitat… e nello stesso tempo ne emerge con proterva e ironica vis narcisistica”. Claudio Magris: “una Spoon River triestina”. Giovanni Giudici: “C. è ben consapevole di capovolgere i limiti della sua peculiarità municipale in un respiro di sovranazionalità… Hohò Trieste del sì del da del ya è per lui una patria più grande…” Andrea Zanzotto: “… una figura di grande vigore morale e umano che sa far propri i drammi di tutti, dalle lotte della Resistenza al calvario degli ebrei, al sentimento di tante inutili stragi sulla sua terra…” Giovanni Giudici nella prefazione di Latitudine Nord: “Aristocratica e popolare, tragica e sorridente la poesia di C. si rivelò improvvisa a pochi e qualificati lettori… Più isolato dell’isolato Saba, C. è anche, rispetto a lui, più “irriverente”: giovane poeta che Trieste regala ai nostri grigi anni ottanta”.

 

 

Un poeta da scoprire, specialmente per le giovani generazioni che non hanno avuto occasione di conoscerlo, per altri un invito a rileggerlo, oggi, in una diversa prospettiva temporale.

Liriche senza titolo, senza segni d’interpunzione, versi brevissimi, estremamente concisi in un contesto a volte ridondante. Un linguaggio assai particolare, questo “esperanto poetico” che attinge i suoi termini da diverse lingue e culture. Il suo modo di esprimersi libero e geniale, senza inibizioni, si basa sulla forza stessa della parola. Lo stile fluido, denso di immagini possiede un interiore ritmo musicale. Questa qualità naturale ha fatto sì che diverse liriche fossero musicate. Con grande affinità di sentimenti il trombettista e compositore triestino Mario Fragiacomo ne ha dato un’efficace prova nel Cd intitolato, non a caso, Latitudine Est (1994) dove, inserendo i suoi versi più significativi, ha operato una singolare fusione fra musica e poesia.

 

(da “Le Giovanili”):

 

El poeta xe un putel

Che gioga col giocatolo

Alfabeto

Giogo pericoloso

Solitario

Con venticinque segni

Tragico ma vario

Nel combinar disegni

Vocali e consonanti

Tenere e dure

Zitte o pur cantanti

 

Chi vinzi in pien

Combina l’Odissea

Chi perdi lassa tuto

Sul tavolin de zogo

L’estro e la fantasia

L’ispirazion de fogo

E resta sordo e muto

 

E solo el se consola

Tirandose a la tempia

Un colpo de pistola

 

(da “Mondo di ieri”):

 

Ventitrè maggio

A Doberdò se mori

 

Omini in grigio verde

Altri in azzurro acuto

Se copa tra de lori

 

In prima fila

Golob l’alfier

Ordina l’assalto

 

Grigioverde trincea

D’azzurro se colora

Morti bestemmie urli

 

Svola fresco un hurrà

Po tutto zitto

 

Golob per terra

In mezzo de la fronte

Un papavero rosso

Largo se ghe disegna

Come fiorì d’incanto

 

Coverto de bandiera

Solo del morto

Una scarpazza nera

 

(sempre da “Mondo di ieri”)

Agosto del quattordici

Giovanni Lin

Richiamato

Alpin

Copar no vol

Omini come lui

I kaiserjegher

 

Svoda giberne

Zo per la Bainsizza

E sul moschetto

Romantica protesta

L’intorcola un fioretto

Altro no resta

De far

Contro la guerra

 

Condannà per codardia

Sei anni de fortezza

Zo a Gaeta

 

Giovanni Lin

Anima de poeta

Varda tra l’inferriade

El mar libero

Pitturado in blu

Con una vela gialla

Tutta vento de vita

 

(da “Le clandestine”):

 

Arone Pakitz

Ebreo coi rizzi

Del ghetto de Cracovia

Un misirizzi*

Import-Export

Morto a Varsavia

 

Suo fio Simon

Chirurgo a Vienna

Fatto baron

Per ordine del Kaiser

Morto a Gorizia

 

Paola sua fia

Cantante d’operetta

Fatta savon

Per ordine del Führer

Morta a Mathausen

(* un pupazzo che resta sempre in piedi)

 

(sempre da “Le clandestine”):

 

Fuma el camin

Mattina e sera

Del lagher de Mathausen

Grande fradel de quel

De la Risiera

 

Lagrime e sangue

Piovi su Trieste

 

Lotte Hen

Camicia bruna

E svastica sul brazzo

Al suo primo servizio

Al “Bloko 33”

Donne e bambini

 

Morsigar de coscienza

Disi el Kapò

Perchè

Su femo i bravi

In fondo xe un brusar

Ebrei e slavi

 

Intanto a Ginevra

Stasera “Parsifal”

Di Richard Wagner

Toscanini dirige

 

(da “Il Ponterosso”):

 

Trieste

Un ponte pitturà de rosso

Il Ponterosso

Come due gambe storte

Traverso del Canal

Dessiné d’après nature

Cassas e Lavallé

Vietato il riprodurre

 

Un sbatociar

De barche e de battane

“Ema” “Sgombro” “Rodolfo”

E fora del Canal

In mezzo al golfo

Un vapor in àncora per sempre

“Stadium” el suo nome

Con tanti oblò

Doppiadi sora el mar

 

Tutto e tutti

Passa el Ponterosso

Revoltella in carrozza con gli Asburgo

Turbanti levantini

Odori de halvà e pesce fritto

E greci e turchi

E dalmati e croati

E svevi de la Bieska

Ebrei de Weimar

A zavattar per metter banchi

 

E passa una slovena

Del Kamnik

No la trova el suo amor

Fabbro de fin

Ferro batù de Kropa

perso el se ga nel vardar onde

 

Carri e cavai

De Pinzgau

Coi zoccoli a tamburo

E lupolo per Dreher

E jazzo per sorbetti

Che cala de Postojna

 

Pianelle furlanute

Cadorini e Ciarniei

Regnicoli e Ungheresi

 

Ponterosso

Del mondo gran corona

E mi son tutto fiamma

De vento son vestì

Coi nuvoli fumando

 

E ciacolo con l’Angelo

Come inciodà de sora dei camini

Con l’elmo dei gendarmi

Color giallo d’argilla

Barba spartida

Come l’Imperator

 

E vedo ancora

Angeli e lune

Come nei quadri

Di monsieur Chagall

 

Un ponte pitturà de rosso

Il Ponterosso

Su l’Adriatico estremo

Sotto el crinal del Carso

Con l’ultima Sirena

Che me smaga

La bella Lau

 

E digo

Strenzi el tutto

E slarga el Ponterosso

Ombelico del mondo

O mia Trieste

Stupida e cattiva

 

(sempre da “Il Ponterosso”):

 

Hohò Trieste

Città del mondo

Balorda e coccolona

Senza creste

Zufoli flà flà

O Trieste

Vestida a la birbona

Maia de mariner

Cotole a pieghe

Gambe cavalle

In scarpe carsoline

 

 

Hohò Trieste

Lunatica nervosa

Imborezzo de feste

Groppo de sentimenti

Del nord ocio celeste

Del sud pelle de sol

E satanassi in corpo

Asmodeo con Tobia

Lotta che mai finissi

 

Hohò Trieste

E la Locanda Granda

Carlo colonna

Sesto d’Asburgo

Canto de Saba

Colori de Veruda

Prosa de Svevo

Questio Vivante

Palazzo de Carciotti

E de Plenario

Barche in Canal

E mussoli ai cantoni

Da Servola a Roian

Da Opcina a Dolina

Strenzemose la man

Monte e marina

 

Hohò trieste

Contime le fiabe

De Smito e de Popò

De sior Intento

Strighezzi de la nonna

In dondolo sentada

Ghirigori parole

Tiritere colori

Coriandoli allegria

Nonna

Son sempre mi

El putel vestì

De mariner

Su la berretta

El nastro “Tegetthoff”

E la franzetta

Bionda dei cavei

Ben pettinada

 

Hohò Trieste

Del sì del da del ja

Tre spade de tormenti

Tre strade tutte incontri

O Trieste

Piazze contrade androne

Piere del Carso

Acqua de marina

Tutte t’ingrazia

Mettile in vetrina

E mi insempià

Col naso contro vetro

Vardo e me godo

Le bellezze tue

 

Hohò Trieste

Filtro che inverdissi

Sui pastini riposa

El mio cantar

Coi ghiribissi

Dei refoli de bora

Dei rizzi d’onda

Dei nuvoli a sfilazzi

O Trieste

Caro viso

Adorabile volto

Inferno e paradiso

Mio albero cressù

Dentro de mi

Con la radise in cuor

Col fior in bocca

 

Senti Trieste

El mio hohò

Forte innervà

Come l’onda

Contro la scogliera

Piantada fonda

Tra Barcola e Duin

La “Lepa Vida”

 

Prinz Thurn und Taxis

Trieste colibrì

O superstar

Mondo Trieste

Con quel tuo far

Sportivo e tirabasi

Eccote sul piedestal

In passerella

 

Battè martei

Sora scarpei

Cave de Nabresina

Alla mia bella

Aliga e tiglio

Modelleghe le man

Che sa far tutto

Prore vanghe

Fòndaci negozi

E ste poesie

De mi

Sconte in Certosa

Amici

Calice in alto

Sangue de Domovoi

Ecco el Terran

 

In gran pavese

El Lloyd

Vesti vapori

Salve barone Bruck

Bevo al tuo sogno

Settanta milioni

De nuvoli cavalco

Hihì hihì cavallo

Trotta ginetto

La mamma vien dal ballo

Hohò Trieste

“Es klingt und singt das blaue Meer”

O Trieste

Baso de Ninfa

Come cantava Max

Fiore d’Asburgo

 

Purtroppo il poeta che dimostrava di saper capire e descrivere così visceralmente la città “del sì del da del ja” non seppe intraprendere con lei un rapporto confidenziale altrettanto stretto, non ricevendo mai in cambio lo stesso amore che aveva dato. Eppure dai suoi versi intrisi nei colori del paesaggio triestino il sentimento tende a espandersi universalmente fino a diventare un tutto con la terra dove è nato.

 

(da “Il Portolano”):

 

Mi no so roba più bela

Che nudar in mar averto

Bordizar po’ con la vela

Sotto costa a Miramar

 

Mi so so roba più bela

Quando el mar xe tuto rizzi

A sognar ‘na parentela

Co delfin lustro de sol

 

Mi no so roba più bela

Quando refola la bora

Al caffè parlar con ela

E no dir e dir no dir

 

Mi no so roba più granda

Del sentir d’esser qua nato

E gustar l’odor che manda

Sta maturla mia città