Ricordando Enzo Valentinuz

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di Walter Chiereghin

 

Il 14 aprile è deceduto nella sua Romans d’Isonzo Enzo Valentinuz, cadendo dalle scale del suo studio-laboratorio. Da poche settimane aveva compiuto 77 anni, essendo nato a Romans il 21 marzo 1946, e da pochi giorni era reduce da una sua personale a Cappella Maggiore, in provincia di Treviso. Una vita da artista – un po’ anomala nel suo svolgimento – e tuttavia iniziata nella maniera più canonica negli anni della sua formazione, dapprima alla Scuola d’Arte di Gorizia, quindi all’Istituto d’Arte, che nel frattempo era stato istituito. In esso ebbe come insegnante il pittore Cesare Mocchiuti, che si rivelò essere per lui un autentico Maestro, percepito dall’allievo come un padre artistico, e non solo negli anni della scuola, ma anche in seguito, dopo che ebbe frequentato l’Accademia a Venezia, allievo di Bruno Saetti e Carmelo Zotti. Valentinuz iniziò a esporre alla fine degli anni Sessanta, e dopo l’Accademia trovò una precaria occupazione nelle scuole come supplente di materie artistiche. Resosi conto che con i proventi così aleatori di tale professione gli sarebbe risultato impossibile mantenere decorosamente la sua famiglia, con la determinazione che gli era propria, abbandona il lavoro artistico e, pur continuando a seguire il dibattito sulle arti e frequentando con assiduità le mostre, per più di trent’anni si astiene dall’adoperare un pennello, una spatola o un torchio. Risulta nel 1973 la sua partecipazione a una collettiva triestina, e la successiva occasione espositiva è datata 2005.

Da allora, fino all’ultimo giorno della sua esistenza – che difatti lo coglie nel suo laboratorio – si dedica a un lavoro indefesso, quasi a cercare un recupero di quel suo tempo perduto. In un’intervista del 2018 (v. Il Ponte rosso n. 37, settembre 2018), mi spiegava così quel suo ritorno alla pratica artistica: «arrivati e superati i cinquant’anni, ho sentito il bisogno di fare di nuovo, di mettere a frutto le mie abilità, poche o tante che fossero, per inseguire un senso più profondo della vita, per verificare cosa fossi capace di esprimere. E ricominciai». Una ripartenza che certo non fu, né mai è diventata negli anni che seguirono, di tutto riposo, prima di tutto perché, in parallelo con la produzione artistica, Valentinuz è stato sempre con costanza impegnato in un’attività di ricerca finalizzata al dotarsi di soluzioni tecniche innovative che gli consentissero di far corrispondere i suoi lavori al progetto ideativo che lo muoveva a realizzarli. E poi il fatto che lavorasse non già su acquerelli o disegni, ma con intonaci e con pietre, realizzando soprattutto composizioni ad intonaco, pesanti anche solo per appenderle su una parete o per trasportarle.

La sua seconda stagione creativa iniziò difatti con i graffiti, con la stesura cioè di una pluralità di strati sovrapposti d’intonaco, anche quattro o cinque, diversamente pigmentati, in maniera da fornire la base per composizioni di norma astratte ottenute mediante l’accostamento tra porzioni più o meno rilevate – e diversamente colorate – dei diversi strati, seguendo un disegno preordinato e riportato sulla superficie dello strato superiore con la tecnica dello spolvero, come si fa per gli affreschi, procedendo quindi all’asportazione del materiale eccedente, evidenziando il disegno con la pluralità degli effetti cromatici riesumti dagli strati sottostanti. Per conseguire risultati corrispondenti a quanto aveva idea di realizzare, l’artista dovette inventarsi nuove tecniche esecutive e, tra le alte, nuove composizioni nella miscelazione degli intonaci.

Una svolta nella sua ricerca avvenne quasi casualmente, con la raccolta tra le pietraie del Carso, di alcune schegge di roccia calcarea forse risalenti ai combattimenti che su quelle alture avevano infierito negli anni del primo conflitto mondiale. Tali frammenti, lasciati al loro colore naturale o più spesso oggetto di tinteggiature a colori primari, disposte su una superficie di sfondo, o incasellate in raggruppamenti distinti per colore, o ancora intrecciate tra loro e sovrapposte in sculture semplificate e tuttavia complesse proprio per gli abbinamenti di colore, fornirono all’artista un docile e duttile strumento espressivo rispondente alla sua inesausta brama di esprimersi in forme astratte o anche, in qualche modo, richiamanti una figura riconoscibile, com’è il caso del Gallo arruffato. In quella composizione, creata come disse l’autore «sotto l’influsso dell’emozione per la strage del Bataclan, ho inteso rappresentare quell’esecrata strage usando i frammenti di pietra, perforati a ricordare i proiettili che hanno raggiunto i corpi delle centotrentasette vittime, ma l’uso del colore ha consentito di celebrare con quell’opera anche la tenacia della vita, nella figura di un gallo (simbolico animale della Francia), che se pure sconvolto da quanto era avvenuto, con le penne arruffate si reggeva comunque in piedi, continuava la sua vita contro l’ombra della morte. Non credo che con una tela dipinta ad olio avrei saputo rappresentare meglio quanto, il misto di orrore e di ammirazione, provavo in quei giorni».

C’è forse necessità di dire altro per ricordare il senso di empatia ed accoglienza dell’uomo e lo spirito che ha animato la ricerca formale dell’artista, fino alla sua ultima giornata?

 

Enzo Valentinuz