Australia 11: Adelaide – Shepparton

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Correre sul vuoto dorato del mondo senza sprofondarci perché finché corri sei salvo

Seguire il girotondo delle nuvole e degli uccelli, il passaggio del sole, e svanire lentamente

di Pericle Camuffo

 

Correre, di nuovo. Correre via da Adelaide. Correre sul vuoto dorato del mondo senza sprofondarci perché finché corri sei salvo, c’è una sorta di legge fisica che ti tiene in vita, che non ti fa cadere, come quando fai girare velocemente un secchio pieno d’acqua.

Sto andando verso il Riverland, verso Berri e le sue arance. Vado a vedere se riesco a rimediare un lavoro. Ho bisogno di soldi e questa dovrebbe essere la stagione delle albicocche o di qualcos’altro, almeno così ho letto sul TNT, il giornalino dei backpakers. Ho passato il Murray, il Mississippi australiano, nei pressi di Blanchetown. Il fiume è pieno di carcasse di grossi alberi che spuntano dall’acqua come dita di gigantesche creature che chiedono aiuto, l’ultimo sforzo, l’ultima speranza prima di soffocare.

 

Berri Riverside Caravan Park. C’è molto vento. Ho parlato con alcuni ragazzi che sono qui da un bel po’a raccogliere frutta. Mi hanno detto che loro girano il paese seguendo le varie stagioni di raccolta, e mentre parlavano ho visto scorrere nei loro occhi il “furore” di tutti i Tom Joad d’America, e l’aria gialla di sole si è riempita di poesia. Penso che dieci giorni di lavoro possano bastare, poi me ne vado a Melbourne per un po’, prima di rientrare a Sydney.

Uno dei ragazzi, quello che raccoglie albicocche, mi ha dato una specie di foglio informativo su quanto e come pagano: Albicocche: 25 dollari; Pere e Pesche: 25 dollari; Mele: 22 dollari. I prezzi vanno intesi a cassetta. Non male, mi sono detto, cosa ci vuole per riempire una cassetta di mele? Magari con le albicocche ci metti un po’ di più, ma è sempre una cosa abbastanza veloce. Insomma, mi sembrava di essere arrivato nel posto giusto per tirare su un bel po’ di dollari. Ero quasi contento. Ho fatto lavori ben più schifosi e pagati meno. Però non capivo perché tutti si lamentavano che è un lavoro duro e sottopagato. E soprattutto non capivo perché il tipo del Queensland, quello delle albicocche, dovesse passare per eroe o superuomo solo perché tira su cento dollari al giorno. Poi ho capito. A centro pagina ho letto che la famosa cassetta che dovrei riempire in realtà era un fottuto cassone enorme, quadrato, 116 cm per 116 cm e alto 60. È stato in quel momento che il ragazzo timido timido che se ne fa cinque al giorno è apparso anche a me un eroe, uno di fronte al quale devi abbassare la testa e passare via diritto e in silenzio. Ho gettato il foglio nel cestino.

Sta calando la sera e odori di carne alla griglia e di cipolla si muovo tra le ali dei cacatua che rigano il cielo. C’è silenzio, ognuno è rientrato nella propria realtà, ha ripreso il proprio posto nel mondo, solo io sono rimasto seduto in questa specie di cucina baracca di lamiera. Io non ho il mio posto nel mondo a cui ritornare. Il Murray è sempre più vicino e calmo e non fa nessun rumore scivolando verso sud ad annegare. L’umile e dignitoso suicidio di un fiume. Lasciarsi portare giù dalla corrente, dal Murray di terra e fango e scorrere nella sua pancia larga, fermarsi in ogni insenatura, in ogni ansa, in ogni irregolarità delle sponde, appoggiarsi agli alberi, alle loro radici che abbracciano il nulla e rimanere lì per qualche istante o giorno o anno e poi liberare la presa e riprendere il corso, continuare ad andare perché quello è il tuo destino, verso il lago Alexandrina e il mare di sale e di azzurro. Distendersi nell’acqua, a morto, come si faceva da ragazzini, e seguire il solco che il gigantesco pesce ha tracciato nella terra, come narra una leggenda aborigena che racconta la nascita del fiume, con le braccia larghe e la testa per metà sommersa a togliere ogni suono, orecchie piene d’acqua ad ascoltare il respiro profondo del fiume, e gli occhi aperti al cielo. Seguire il girotondo delle nuvole e degli uccelli, il passaggio del sole, e svanire lentamente, come sempre, come ovunque, rinsecchirsi come tronchi aridi fino ad esplodere in mille schegge mute, e non lasciare niente. Forse è nel fiume il mio posto nel mondo, la mia realtà.

Stanotte uno strano tipo si è messo ad urlare in cucina, e a rompere la notte e i coglioni. Gridava, poi cambiava voce, l’abbassava, le dava profondità e parlava da solo scambiando frasi brevi, mozzate dalla foga e dalla follia. Parlava con Cristo o ce l’aveva con lui, non ho capito bene. Erano quasi le cinque. Poi ha smesso di colpo, ha detto quello che doveva dire e se n’è andato. Io sono rimasto chiuso in machina, non si sa mai, faceva veramente impressione sentirlo dialogare con la sua anima d’inferno, per cui mi sono girato dall’altra parte e mi sono rimesso a dormire.

Il giro di stamattina non ha dato risultati. Sono andato fino a Renmark, ma niente neanche lì. Sembra che non ci sia lavoro. Tutti ti sbattono in faccia un articolo: “Immigration toughens up”. E hanno già sottolineato le frasi importanti, così non devi fare neanche lo sforzo di leggertelo tutto. In sostanza si dice che la DIMA (Depatment of Immigration and Multicultural Affairs), sigla che a me suona un po’ di burocrazia e di repressione stalinista, ha emesso una legge o un decreto o che ne so, in cui stabilisce che ogni datore di lavoro che assume personale illegale, cioè senza visto di lavoro, rischia fino a due anni di carcere e fino a 66.000 dollari di multa. Chi invece è beccato a lavorare senza permesso può venire rinchiuso e anche cacciato dal paese. E poi c’è l’invito agli agricoltori di controllare lo stato legale dei loro lavoratori prima dell’eventuale assunzione, con tanto di numero verde a disposizione per chiedere informazioni.

Me ne starò qui tutto il giorno a rigirarmi i pollici e le palle, aspettando che ritornino gli altri lavoratori per sentire com’è andata e per bermi un po’ di vino in compagnia, prima di lasciare questo posto.

 

Ho lasciato Berri e il suo campeggio-comunità-ostello. Ho lasciato il ragazzo inglese con i capelli rasta, il viso spigoloso e la sua risata aperta e disponibile, che stava tutto il pomeriggio seduto davanti al furgone a suonare malamente la chitarra, senza cantare mai, solo una rozza melodia strappata dalle corde di nailon mentre io disteso sull’erba leggevo gli insegnamenti di Lao Tze. Ho lasciato la faccia sorridente della piccola coreana che si stupiva per ogni cosa, ogni spostamento d’aria era per lei una meraviglia, e aveva ventisette anni ma ne dimostrava dieci di meno nel suo girovagare l’Australia da sette mesi, senza macchina, solo chiedere passaggi come i vecchi hobo d’America, salire e scendere da macchine di altre persone e di altre lingue, senza tetto né legge, una giovane Box-car Bertha dagli occhi a mandorla sulle strade senza fine di questo continente che percorreva senza perdere la tenerezza e il sorriso. Ho lasciato il ragazzo del Queensland, quello che faceva cento dollari al giorno con le albicocche, che fumava mille sigarette nel silenzio orgoglioso della sua abilità di raccoglitore che tutti noi gli riconoscevamo senza esitazioni. Ho lasciato il vichingo olandese alto e grosso e tatuaggi sulle spalle e piercing al sopracciglio destro, l’unico che ha visto in faccia l’uomo urlante nella notte, quello che aveva problemi con Cristo, lui l’ha visto perché è uscito dal suo furgone per controllare mentre tutti noi ci rigiravamo nel sacco a pelo e nella paura. È uscito e l’ha trovato disteso per terra in cucina e ha chiamato il tipo del campeggio, e poi il giorno dopo la raccontava a tutti questa storia, e tutti se la facevano raccontare ancora e ancora per dargli soddisfazione, per sottolineare la differenza di fegato tra lui e noi conigli chiusi stretti nelle nostre trappole di lamiera e plastica. Ho lasciato anche la ragazza bionda grosse tette e cappellino sempre in testa che leggeva e leggeva seduta davanti alla sua tenda, e che solo ogni tanto ci raggiungeva per bere un bicchiere, per sentire il bollettino della giornata di lavoro e qualche nuova storia che qualcuno tirava fuori. Ho lasciato il solitario del Western Australia che si bruciava gli occhi sullo schermo tremolane della tv con interminabili partite di cricket, il solitario e forse gay che sorrideva mangiandosi la faccia, come se il suo viso si accartocciasse attorno alla bocca che diventava piccola e sottile. Ho lasciato quell’oasi di comunicazione e intesa e rispetto, quel quasi gruppo in cui si divideva il vino e il cibo e dove ognuno metteva lì la propria storia, senza chiedere niente in cambio. E ho appena lasciato anche il South Australia passando sotto la sagoma di un pneumatico Dunlop che fa da arco e da confine.

Mi fanno male le gambe e devo di nuovo fare benzina.

Non ce la farò ad arrivare a Shepparton entro stasera, mi sono già rotto i coglioni di guidare. Shepparton è l’ultimo tentativo per il lavoro della frutta. Mi hanno detto che lì c’è una specie di centro o associazione che conosce tutta la situazione della zona e mi dovrebbero informare sul dove e sul quando si può cominciare. Ho ancora 1000 dollari e potrei benissimo tornarmene a Sydney senza lavorare. Ma voglio avere la coscienza a posto e poi penso che sia sempre vita da raccontare e raccontarsi.

Mi fermo a Euchuca, in un campeggio squallido e pieno di conigli. Il bottle shop per fortuna non è molto distante e un paio di birre rendono il sonno più facile.

 

A Shepparton è ancora tutto chiuso. Devo aspettare fuori dall’ufficio-associazione dei raccoglitori. Siamo circa in venti raggruppati nel piazzale della speranza, e penso che tutti loro ci sperino veramente, mentre io me ne sto seduto in macchina ad osservare la scena carica di tensione. Alcuni sono proprio messi male, altri sembrano in vacanza e indossano i vestiti dei loro sogni anni Sessanta anche se qualcuno di loro è nato vent’anni dopo che gli hippies hanno celebrato il proprio funerale nell’ottobre del 1967. Io, almeno, sono nato qualche mese prima di quell’evento, anche se non so se questo significhi veramente qualcosa. Forse significa solo che sono vecchio e che non dovrei stare qui tra di loro, ma a casa con moglie e figli e un lavoro sicuro. Forse nei loro occhi io sono una luce fioca, un intruso, un vecchio a cui è andata male e a cui non vorranno mai assomigliare. Un vecchio che ha gettato la sua vita chissà dove e che gioca ancora a fare il ragazzino, un vecchio vagabondo solitario senza la forza e il talento e la bellezza di Jack Kerouac. Forse io sono ciò che li spingerà a tornare a casa e a mettersi a studiare e a trovarsi un lavoro e fare una vita normale come tutte le persone normali di questo mondo normale, e non come quel deluso e perdente vecchio che hanno incontrato a Shepparton.

Hanno aperto l’ufficio. Prendo il numero e aspetto il mio turno. Allo sportello una ragazza gentile e bruttina mi dice che le dispiace ma per adesso non c’è niente, ma se aspetto un paio di settimane ci sarà un sacco di lavoro con le pere. La ringrazio ed esco, perché se resto qui ad aspettare un paio di settimane, probabilmente finisce che le pere me le faccio io.