Il cielo sta fuori

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Una raccolta di versi di Francesco Sassetto pubblicata da Arcipelago Itaca

di Sandro Pecchiari

 

Francesco Sassetto nel suo nuovo libro Il cielo sta fuori ci invita a confrontarci con la carica espressiva e il “colore” della lingua di Venezia, città che per abitudine e superficialità colleghiamo alle frivolezze del ‘700, prima della caduta della Repubblica. L’immaginario collettivo ha trasformato la città in un bengodi per turisti, finendo per snaturarla e soffocarla.

Invece Francesco ci riequilibra con il suo poetare compatto, alto e preciso, a sostegno di un messaggio mai edulcorato né consolatorio, in cui la forza spazia dalla poesia civile alla civiltà dei rapporti umani nella sfera privata e personale.

I testi qui raccolti sono per la maggior parte inediti, scritti tra il 2017 e il 2020, in parte pubblicati on line e in antologie mentre altre poesie già edite vengono qui riproposte, con qualche mutamento soprattutto formale, nella convinzione di una loro “attualità” di contenuto e d’una ancor viva efficacia comunicativa.

Stefano Valentini sottolinea come la poesia di Francesco Sassetto sia stata ascritta al filone denominato “poesia civile”, nel senso più intenso di «poesia di rapporto e relazione reale, tangibile, quotidiana con se stessi, ma soprattutto con gli altri. Non genericamente con l’altro, entità più o meno astratta, ma con gli altri, concretamente individuati e percepiti».

In effetti il libro ci porta a volo d’uccello dai problemi sociali (la Resistenza dimenticata, i picchetti nel freddo della stazione, l’atmosfera mutata nelle strade a mano a mano che la dimenticanza e la superficialità fa rinascere mostri, fuori dai supermercati, negli uffici postali, nelle comunicazioni impossibili) per poi infilarsi via via nelle stanze-prigioni del malessere e dello sfruttamento, nella difficile via per integrarsi nelle aule scolastiche per poi colpire con mira esatta i rapporti amorosi, nella sfera privata, in una interazione tra un dentro/interno e un fuori che spesso ha gli stessi identici connotati di reclusione, in una mega-realtà simile a una matrioska.

Francesco usa gli esergo nel libro con la stessa funzione delle bricole e delle dame lungo i canali, per orientarci nella navigazione-lettura. Elio Pagliarani apre il libro in modo perfetto: «È nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita». Si prosegue lungo l’abbandono dei sogni fondanti della storia della repubblica, con Franco Fortini e la sua giustizia futura stretta dai pugni dei morti fino all’impossibilità di ottenere un giudizio netto da un popolo dissociato da secoli, come definito da Pier Paolo Pasolini, e alle terribili parole di Primo Levi: «Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia».

E più avanti Ivano Fossati e Francesco De Gregori con le loro stelle basse o niente e l’impossibilità di riconoscere gli amici e dover fare e disfare, battere e levare senza saper bene dove andare e che amore crudele aspettarci, mentre passa tutto il tempo affidatoci. In questo caso senza padroni, sì, ma anche senza direzione.

E l’amore potrebbe venire, magari davvero per una sola volta, quelli che si incontrano nella vita e quelli che rimangono perché sono legami di sangue indissolubili. Questo è forse l’amore che perdura e indica la direzione corretta: «Vorrei dirti che no, che ti s’appressa / l’ora che passerai di là dal tempo; / forse solo chi vuole s’infinita, / e questo tu potrai, chissà, non io», nei versi di Eugenio Montale. Il tutto senza vittimismi o recriminazioni, osservando come l’indifferenza possa trasformarsi in ferocia, la noncuranza che si fa prevaricazione in una guerra tra mosche, un conflitto generato dalla necessita di sfogare il proprio disagio. Ne è esempio preciso la poesia:

 

Ufficio postale

Allufficio postale si armeggia tutti col postamat / aggeggio infernale, il codice da digitare, un vecchio / chino allo sportello  non so, il numero lho lasciato a casa, / la fila singrossa, aspetta sbuffando che il vecchio / si levi, il display segna il numero otto e dietro / sono diciassette. La folla comincia rabbiosa ad inveire, / la colpa è quel pensionato, un ragazzotto gli grida / addosso, un tumulto, è tutta gente che deve lavorare / e ogni volta è uguale, il vecchio trema, si allontana / barcollando, gli occhi velati di vergogna e di dolore.// Era orasi dice ad alta voce. // Si celebra anche oggi il rito dellodio quotidiano / e noi non andiamo in pace.

 

Sono le persone inesistenti della quotidianità, incrociate e ignorate, gli anonimi, che patiscono le ingiustizie delle leggi, che perdono il lavoro, che muoiono lavorando più o meno regolarmente, che vengono schiavizzati anche sessualmente:

 

Mani di rosa

Le ragazze cinesi stanno là, notte e giorno / chiuse nel semibuio delle camerette, / prigioniere di un congegno di mercato, / obbedienti al padrone. // Le ragazze accarezzano la pelle del pagante, / con cortesia sorridono, sfiorano gli occhi / del consumatore ad intuirne il consenso / il grado di appagamento. // Matteo dice che nel regno dei cieli loro / andranno avanti, intanto annegano / le mani nel sudore e negli umori del cliente. // Il cielo sta fuori, in alto /          e non dice niente

 

A volte sono personaggi dai nomi precisi, che acquistano spessore nella loro inesistenza, nella lotta per riscattarsi e chiedono e richiedono una pur minima considerazione perché il nome è l’identità di ogni uomo e ogni donna, il nome è l’inizio di ogni storia: Tahiri, Eliryete, Riagul, Kristyna, Jasiya, vicende incontrate davvero. Altri scelgono il silenzio, non rivelando nemmeno il proprio nome, non aspettandosi nulla. Con il cielo fuori, sempre, mentre la storia personale viene compressa all’interno:

 

Eurospar

Un ragazzo di colore alla porta dingresso, una giacca / sahariana, jeans, un sorriso a fatica negli occhi / tristi ammarati su questa cattedrale occidentale / da chissà quale distante dolore […] E lui là tutta la giornata, fermo, diritto, gli chiedo / se vuole fumare, lui cortese declina, gli vorrei / parlare, sorride, non dice niente nemmeno / il suo nome, lordine è non disturbare il cliente, / stare lì // sorvegliare / sorridere / aprire la porta.// E non dire niente.

 

Ripensando alla prima poesia in assoluto, Background, si insinua il dubbio che tutti in questo agitarsi di storie, siano già imprigionati in un determinismo rigidissimo, in cui ogni fenomeno o evento del presente è necessariamente determinato da un fenomeno o evento accaduto nel passato:

 

Dipende da dove che ti vién, da laria respirada da putèo, le vose i oci / che te xe entrài dentro e se ga inciodà, / le man indurìe de me pare, le ónge col nero de i fèri che no va più via / (…) Dipende da mia mama maestra a vintani ne le campagne de Pianìga, miseria / e litorìna a le sìe e bicicleta par chilometri de giasso e sassi, el paltò, sempre queo, revoltà e messo posto (…)

 

[Dipende da dove vieni, dallaria / respirata da bambino, le voci gli occhi / che ti sono entrati dentro e inchiodati, / le mani indurite di mio padre, le unghie con il nero / degli attrezzi da lavoro che non va più via, (…). / Dipende da mia madre maestra a ventanni / nelle campagne di Pianiga, miseria / e littorina alle sei e bicicletta su chilometri / di ghiaccio e sassi, il cappotto, sempre quello, / rovesciato e adattato (…)]

 

Il libro affronta le possibili relazioni, il legame con la realtà personale, per entrare con lucidità in una dimensione più intima, nella sua concezione dell’affettività di coppia, quella che si radica nel quotidiano sociale interagire con la persona amata. E qui i dubbi si ampliano, le incognite diventano maggiori e inafferrabili, quanto più vicine sono, nella percezione di trovarsi in una reclusione effettiva nei sentimenti privati, con il sospetto che i giochi siano già stati preordinati e vadano solo vissuti secondo il copione:

 

Capirsi

sarebbe come capire questacqua di laguna / che ora corre rapida al maestrale ora lenta / scivola nellafa, acqua che sa di fiume e / di sale, risale le barene, il suo mistero / di riflussi, la sua quiete apparente. // Stare così, alla riva, osservare il moto / dellonda che si allarga a tondo nellaria /

 sospesa squarciata da grida di gabbiani.[…]  È nei tuoi occhi inquieti il senso del tuo indagare //     perché lamore /     vive nella tua sete di conoscenza / nella tua ignoranza //     nel divenire / che  non sai e non puoi capire.

 

Il percorso attraversa una “bufera” individuale, specchio all’altra bufera nella storia contemporanea di irrigidimenti, migrazioni, non accettazioni, incrinature devastanti negli equilibri culturali, e il riemergere di paure e di mostri che si pensavano eliminati per sempre. Le moltitudini sono costituite d’innumerevoli individualità, ciascuna con le proprie personali aspettative di futuro, esattamente come avviene a ciascuno di noi, individuo tra le moltitudini. Ma tutti sembrano comunque affondare in un Titanic di esistenze sperse nell’acqua alta, così facile a Venezia, Mose o non Mose.

 

Andremo via anche noi, un giorno o laltro / come sono già andati in tanti, eco colloquiale della terzina dantesca sì lunga tratta / Di gente, chinon avrei mai creduto / Che tanta morte navesse disfatta, si interroga senza aspettative su cosa sarà il dopo – un altro deserto, un viaggio migliore, ma certamente soli come soli / siamo sempre andati e introduce il dittico, commovente e toccante, delle due brevi poesie dedicate al padre e alla madre. Il nome, ancora il nome, nella poesia per il padre, a riscattarne l’identità sconosciuta al figlio; il vuoto, ancora il vuoto, in quella per la madre, unica presenza davvero salvifica. A concludere quanto aperto all’inizio con le osservazioni in Background:

 

Pensando a mio padre

Se accanto avessi mio padre quando cala la nebbia / sulla Piazza deserta e s’offusca ogni luce / tra gelide gocce avrei forse la sua scarna saggezza / la sua semplice voce a dirmi qualcosa. // Ma mio Padre nell’isola verde riposa il suo giovane corpo / di stancato operaio, nel mito che quanti ne conobbero / gli occhi mi dissero dei suoi pochi anni. // E a me solo rimane il dolore di non saperne che il nome / una memoria che ignoro e nessun ricordo / su cui crescere un fiore.

 

Mi lo so, mama

che ti xe da qualche parte. Ti, svolàda via cussì, / na fògia desfàda a novembre che se mòla / e se pusa in tèra.[…] e ncora desso che vado da solo in mezo al vódo, / me tegno stréte nel pugno le to parole, la bussola / che ti me ga lassà.

 

[Io lo so, mamma: che sei da qualche parte. Tu, volata via così,  / una foglia disfatta a novembre che si stacca / e si distende a terra […] e ancora adesso che vado da solo in mezzo al vuoto, / tengo strette nel pugno le tue parole, la bussola / che mi hai lasciato.”]

 

Non a caso, la prima è in italiano mentre la seconda in veneziano, quella lingua-madre che già nei libri precedenti, e via via sempre più, diviene per il poeta lingua di natura tramite la quale esprimere le cose più importanti e decisive, radice delle stesse radici.

E alla fine ci rimane ancora un po’ di tempo per voltarsi, senza purtroppo capire esattamente da dove siamo passati:

(…) Andremo soli come soli / siamo sempre andati.

 

 

Riquadro:

Francesco Sassetto risiede a Venezia, dove è nato nel 1961. Laureato in Lettere nel 1987 a “Ca’ Foscari”, Venezia, con una tesi sul commento trecentesco di Francesco da Buti alla Commedia dantesca. Insegna Lettere presso il Cpia di Venezia (Centro per l’istruzione in età adulta), sede associata di Mestre.

Suoi testi sono presenti in numerose antologie e riviste. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia:  Ad un casello impreciso (Padova, Valentina Editrice, 2010) con prefazione di Stefano Valentini,  Background (Milano, Dot.com Press-Le Voci della Luna, 2012) con prefazione di Fabio Franzin, Stranieri (Padova, Valentina Editrice, 2017) con prefazione di Stefano Valentini,  Xe sta trovarse, in dialetto veneziano (Samuele Editrice, Fanna, 2017), con prefazione di Alessandro Canzian.

 

 

Francesco Sassetto

Il cielo sta fuori

Arcipelago Itaca, Osimo 2020

  1. 116, euro 13,50