LA SCRITTURA DELLE DONNE

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Il Concorso Internazionale di Scrittura femminile “Città di Trieste”

di Cristina Benussi

Da dodici anni l’8 marzo vede nella sala del Consiglio comunale la premiazione del Concorso Internazionale di Scrittura femminile “Città di Trieste”, organizzato dalla nostra Consulta femminile. Ogni anno cambia il tema del concorso che quest’anno era incentrato sulle diversità culturali. Le scrittrici si sono giustamente interrogate sul senso da attribuire alla parola cultura, che non significa solo rappresentazione di mondi basati su valori civili, religiosi, antropologici, radicati in continenti o stati diversi dal nostro, ma può riferirsi anche a un punto di vista interno a uno stesso sistema sociale. Tra un’afgana e un’italiana c’è differenza, ma in qualche caso meno che tra una giovane e un’anziana della stessa città, o tra un uomo e una donna. Detto questo, è anche vero che la maggior parte dei racconti si sono affrettati a produrre rappresentazioni miranti a focalizzare più le omogeneità che le differenze tra abitatrici di luoghi lontani, ora da noi inurbate e dunque a stretto confronto su spazi e temi comuni. In questo modo viene sottolineata, anche da parte di chi forse non ha meditato sulla specificità della scrittura femminile, la particolarità del pensiero da cui la propria narrazione è orientata: proporre ogni integrazione possibile, quale che sia il piano su cui avviene l’incontro, piuttosto che l’opposizione nel nome di un  “ego” che vuole distinguersi, tentando dunque di differenziarsi e di controllare l’altro, se non di sottometterlo: è, quest’ultima, la caratteristica del pensiero maschile, tendenzialmente astratto e concettuale, legato a un’idea di forza gerarchica e dunque di sfoggio di supremazia. Il dialogo su ciò che accomuna un’esperienza concreta è invece consustanziale al pensiero femminile, che sa usare nella vita e nella scrittura quelle strategie empatiche capaci di entrare nella mente dell’altro, e di aprire un confronto sul piano della disponibilità ad essere ciò che sembra giusto in quella circostanza. Le autrici dei racconti assumono una prospettiva cautamente ottimistica sulla possibilità di comprensione reciproca e di possibile convivenza, più per quanto riguarda le differenze anche antropologiche fra donne che quelle di genere interne al nostro sistema valoriale. E lanciano coraggiosamente un monito, rivolto agli stessi approcci postcoloniali e femministi che rischiano di irrigidirsi su posizioni identitarie, invitando piuttosto a tener attiva quella tensione critica capace di aprirsi a letture sempre nuove del mondo, e a nuovi contesti anche contro quelle politiche tese a rivendicare il proprio specifico status di minoranza (etnica, sessuale o di altro genere). L’identità, a differenza di quanto noi pensiamo, non è così trasparente o a-problematica. Forse, invece di pensare ad essa come a un fatto compiuto, rappresentato dalle pratiche culturali emergenti, dovremmo pensarla come un fenomeno sempre in «produzione», cioè come un processo eternamente in atto, mai esauribile, e sempre costituito all’interno, e non fuori, delle rappresentazioni. Le donne ci riescono meglio, perché preferiscono vivere non in base a una logica coesa, bensì a pensieri che nascono dall’esperienza quotidiana, dove anche dai tratti franati di territori prima compatti si possono utilizzare i materiali più eterogenei per ricostruire. In comune per tutte c’è pur sempre quella che Maria Zambrano definisce «l’essere per la vita».  Le culture più distanti tra loro, paradossalmente, continuano a restar dunque, in via teorica e al di là dei frequenti casi di più o meno sofferto mimetismo, quelle maschili e femminili.

Mentre cambiano in temi, da dodici anni viene sempre assicurato, dai discorsi inaugurali, che la violenza sulle donne va condannata, che uomini e donne sono uguali, e che dunque è giusto che abbiano gli stessi diritti. Ci mancherebbe altro che non avessimo gli stessi diritti e che la violenza venisse incoraggiata, ma non è assolutamente vero che siamo uguali. Anzi siamo talmente diverse che stentiamo ad adattarci a un sistema valoriale che ci impedisce di accettare un gioco di potere assurdo perché lontano per il pensiero femminile. E dunque stentiamo ad entrare nelle stanze dei bottoni perché consciamente o inconsciamente rifiutiamo il meccanismo che ce lo consentirebbe: per entrarci senza fatica dovremmo essere uomini. Il racconto che ha vinto il primo premio quest’anno pone l’accento proprio sulla differenza di logica e di valori tra i due mondi e invita, piuttosto che a compiangere l’inevitabile subordinazione femminile, a far un’ironica autocritica su come ci siamo illuse di poter competere stando all’interno di questa logica. Il cammino è appena cominciato, e la meta non è l’uguaglianza in questo sistema, ma il cambiamento del sistema stesso: solo allora il dialogo potrà svolgersi alla pari. La vincitrice, Luisella Pacco con un racconto dal titolo emblematico, Che più azzurro non si può, è riuscita ad appropriarsi del punto di vista del pensiero maschile, per evidenziare, in modo ironico e solo apparentemente riferito a una situazione banale, i meccanismi logici ed emotivi alla base di una Weltanschauung che ha condizionato da sempre la struttura mentale e quindi operativa del mondo occidentale. Attraverso un monologo che a momenti si fa dialogo, si squadernano gli stereotipi e le strategie di potere che hanno caratterizzato i rapporti di genere, evidenziando i punti deboli di un modello che comincia a mostrare le prime crepe, con i cui meccanismi si può dunque cominciare a giocare, non per adattarvisi, ma per smontarli e forse renderli inoffensivi.