Film blu: o l’elaborazione del lutto

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di Stefano Crisafulli

 

Quanto mi manca un regista come Kieslowski! Un regista capace, nella celebre trilogia formata dai colori della bandiera francese, Film Blu, Film Bianco e Film Rosso, di dare un senso umano (e non troppo umano) al mistero della vita e alla sua crudeltà. Ciò accade soprattutto nel primo dei tre capolavori, Film Blu, uscito nel 1992 e vincitore, l’anno successivo, del Leone d’Oro alla mostra del cinema di Venezia. Un’opera folgorante come poche, intessuta di silenzi, di sguardi e di rimandi alla casualità reale della vita, che divengono altrettanti segni da decifrare per la protagonista del film, Julie, interpretata da una Juliette Binoche in stato di grazia e vincitrice (non casuale…) della Coppa Volpi. L’attrice raccontò, poi, in un’intervista che, all’epoca, le avevano proposto sia Jurassic Park di Spielberg sia Film Blu di Kieslowski e, senza esitare troppo, scelse quest’ultimo: col senno di poi possiamo dire che fu la scelta giusta. C’è da aggiungere, inoltre, che ognuno dei film della trilogia è legato a una delle parole del celebre motto della rivoluzione francese ‘liberté, egualité, fraternité’. Film Blu è, dunque, un film sulla libertà, ma, come accade spesso in Kieslowski, la libertà diventa una domanda (che cos’è la libertà?) e non è detto che, alla fine del film, ci sia una risposta pronta da portare a casa.

Se si volesse condensare Film Blu in poche parole, si potrebbe dire che è il lento ritorno alla vita della protagonista e, allo stesso tempo, l’elaborazione di un lutto. Julie è la moglie di un celebre compositore, Patrice, che muore in un incidente d’auto assieme alla figlia Anna. L’unica sopravvissuta dell’incidente è proprio lei, Julie, che si risveglia in ospedale viva, ma, da quando la informano del tragico esito dell’incidente, con la morte nel cuore. Per lo spettatore, alcune riprese sono già da antologia, come quando vediamo ciò che vede Julie dal riflesso della sua pupilla. Ci saranno molte altre riflessioni di questo tipo in tutto l’arco del film, come se l’interiorità della vita si rivelasse grazie agli specchi. Dopo aver cercato di porre fine al dolore tentando il suicidio, Julie capisce che è troppo legata alla vita per farlo e ritorna lentamente nel mondo. In un primo momento, il dolore si è congelato in lei e non riesce ad esprimersi, tanto che cerca di farsi del male nel corpo per poter liberare i sentimenti preclusi, come si può vedere in un’altra scena fondamentale, quando Julie striscia le nocche della mano su un muro di pietra. Il tentativo disperato e impossibile è ora quello di cancellare il passato e con esso la tragedia vissuta. Julie cambia casa e va ad abitare a Parigi, nei pressi di Rue Muffetard, e scopre che il marito aveva un’altra vita, di cui non era a conoscenza. Ma scopre anche che il passato non si può cancellare e che forse è meglio lasciarlo andare, per poter riprendere il filo della sua esistenza spezzata. E portare a compimento, alla fine del film, quel Concerto per l’unificazione dell’Europa che Patrice non era riuscito a concludere. ‘Per gli psicologi – scriveva Freud – il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare ma a cui si possono far risalire altre oscurità’. Kieslowski (morto nel 1996) con questo bellissimo film ci ha mostrato l’enigma nella sua elaborazione e anche l’emergere delle relative oscurità a cui si riferisce Freud, che fanno parte di quell’altro enigma più grande da noi familiarmente chiamato ‘vita’.