La Jugoslavia di Goran Vojnovic

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di Diego Zandel

 

Per uno scrittore la data di nascita così come il luogo in cui questa è avvenuta e le circostanze e l’ambiente in cui è cresciuto sono tutt’altro che trascurabili. Personalmente, il fatto di essere nato in un campo profughi istriani, fiumani e dalmati nell’immediato o quasi dopoguerra ed essere cresciuto e formatomi in una comunità, quasi corpo separato, di esuli, ha indubbiamente condizionato il mio lavoro di scrittore. Così come credo che il fatto di essere nato nel 1980 a Lubiana, in un Paese, la Slovenia, che faceva riferimento a una patria più grande, la Jugoslavia, ed essere cresciuto in un quartiere periferico e “meticcio” della città come Fužine, dove abitavano di preferenza i cosiddetti “čefuri”, cioè gli immigrati dalle repubbliche meridionali della allora Federativa, sia stato determinante per la formazione dello scrittore sloveno Goran Vojnović. Tanto più quanto, arrivato agli undici anni, ha assistito a una guerra civile in cui i “čefuri”, da compagni di gioco e, in qualche modo, compatrioti, si sono trasformati in nemici o, comunque, in “altri”, diversi, addirittura stranieri.

Su questo tema Goran Vojnović ha scritto due significativi romanzi Cefuri raus e Jugoslavia, terra mia.

Il primo, scritto originariamente nel 2008, e pubblicato in Italia nel 2015 dalla Forum di Udine nella traduzione dell’ottima Patrizia Raveggi, è il racconto di questo mondo che a Roma si direbbe “borgataro”, composto com’è da gente per lo più volgare, anche nel linguaggio, sempre alle prese con problemi di vario tipo, particolarmente economici e che trascinano tutti gli altri, facendola ricorrere, per sopravvivere, a una serie di traffici illeciti, in particolare quelli della droga, visto il mercato dei consumatori che ben fiorisce in queste lande cittadine, non senza chi, naturalmente, cerchi di tirarsene fuori. Poi c’è il calcio, il tifo. Se sei un “čefuro” che viene da Belgrado hai la squadra della Stella Rossa nel cuore e lì può stonare, ma che razza di squadre ci sono a Lubiana? “Io, un Delia (come vengono chiamati i tifosi della Stella Rossa di Belgrado, n.d.r.) non posso esserlo. Non lo so perché. È tutta una complicazione del cazzo. Si capisce che tengo per la Stella Rossa, ma non che… no, non ha senso che la Stella Rossa sia la MIA squadra. La Stella rossa è dei belgradesi. Se sei tosto e in gamba tieni per la squadra della tua città. Solo che Lubiana è una città buffa. Forse è così perché sono un cefur. Se fossi un bravo ragazzo sloveno, a casa farei il tifo per l’Olimpia e probabilmente giocherei a hockei. Il mio paparino Janez, calmo calmo in poltrona, mi racconterebbe dell’Olimpia campione nazionale di pallacanestro negli anni Settanta, e della partita di calcio terminata in pareggio contro la Stella Rossa campione del mondo negli anni Ottanta”. Ma “se una volta sei stato tifoso di una squadra campione del mondo, non è che poi, come niente fosse, cambi canale e ti elettrizzi per risultati in pareggio, sconfitte onorevoli, per i turni preliminari della Champions League, per la Coppa slovena e l’importante vittoria sulla squadra di Beltinci. Sticazzi, no, non va.”

Per cui nel romanzo si parla molto anche di calcio, perché, come ormai sappiamo, l’appartenenza a una squadra ha un valore identitario forte che fa gruppo, con tutti i guai che ne derivano in termini di sicurezza, con scontri tra tifosi, scontri con la polizia, perché poi entra in gioco l’aspetto nazionalistico, per cui ecco che si mescola tutto e si formano bande che portano al diapason le rivalità nazionali che hanno finito per il contrassegnare la fine della Jugoslavia. (A proposito di scontri con la polizia: per questo romanzo Vojnović è stato chiamato al commissariato per rispondere all’accusa di diffamazione, incontrando subito la protesta degli scrittori sloveni a tutela della loro libertà di espressione).

Il nostro protagonista, Marko, la voce narrante al quale l’autore ha dato il parlato in uso tra i čefuri, per altro ben reinventato, in un’operazione tutt’altro che facile, dalla Raveggi, è un ragazzo di diciasette anni, che assume il ruolo della coscienza del suo gruppo di amici. Madre slovena e padre bosniaco, col tempo sente crescere la propria ostilità con gli sloveni, che sono poi quelli che vivono nei quartieri bene, fighetti da prendere con le molle, mentre quando vai giù in Bosnia, “ti accolgono come se tu fossi la persona più importante di tutte, un re, solo perché sei dei loro”. Gli sloveni, invece “pensano solo per sé; se ce n’hanno abbastanza per sé e il macchinone e il villone, ne jebejo, non gliene sbatte un tubo di fratelli, sorelle, zie e zii.”

Poi c’è l’aspetto della lingua, che si è esacerbato dopo la guerra. Su questo aspetto Vojnović gioca molto. “Più di tutto mi fa incazzare quando mi scrivono il nome Marko Djordijć”. E spiega, a modo, suo tra una parolaccia (“Pičke materine, testa di cazzo di analfabeti”) che il suo nome non si scrive Djordijć, bensi con le due d tagliate, cioè Đ maiuscola la prima e đ minuscola la seconda che si leggono G, per cui il suo cognome di pronuncia Giorgević. “E’ difficile? Sei lettere. Due đ tagliate e una ć dolce. Le trovi anche sulla più sfigata delle tastiere. Il fatto è che questo è nazionalismo. Loro a noi čefuri non ci possono vedere e fanno apposta a scrivere così”. E sottolinea come però, quando sulla cronaca nera leggi di rapine, furti e mafia, vedi come scrivono bene i nomi “allora sono tutti Hadžihafisbegović e Đukic, tutti cefuri con la loro đ tagliata e ć dolce. Anzi, volentieri le metterebbero in grassetto quelle nostre lettere, così si sa che solo i cefuri sono furfanti”.

Il romanzo, il cui pregio maggiore è proprio la scrittura per via di quella ricercata aderenza al parlato – operazione che un po’ richiama quella di Pasolini con Ragazzi di vita – rivela uno scrittore dotato di grandi mezzi espressivi e narrativi, ma anche coraggio nel portare alla luce il volto nascosto di una Slovenia ben acquattata dietro un suo perbenismo di facciata che la contraddistingue, tanto da farla apparire più moderata nel suo nazionalismo, quando nella realtà lo giudico, proprio perché nascosto, più pericoloso di quello, pur esibito, e talvolta in eccesso, da altri.

Ancora più coraggioso Goran Vojnović si è rivelato con il successivo romanzo Jugoslavia, terra mia, anch’esso edito dalla Forum di Udine e tradotto sempre da Patrizia Raveggi.

Qui protagonista è sempre un čefur, Vladan Borojević, un ragazzo che conosciamo in due momenti della sua vita, ragazzino a Pola e trentenne a Lubiana, ma sarà già adulto quando scoprirà che suo padre Nedeljko, ufficiale dell’Esercito popolare jugoslavo, dato per morto nel 1992, in realtà è vivo e si nasconde sotto falso nome perché ricercato come criminale di guerra. Solo il tema, ad affrontarlo in Slovenia, fa tremare i polsi. Anche perché, a guardar bene, sia in Slovenia che in Croazia e Serbia (fanno eccezione un po’ i bosniaci), la guerra, quella guerra che si è protratta negli anni Novanta e che ancora è tutt’altro che sedimentata, ciò che l’ha generata e ciò che ha prodotto, non è mai stata raccontata apertamente. Accennata, oppure denunciata attraverso più frammenti interessanti, come ad esempio ha fatto la spalatina Olja Savičević in Il cantante nella notte. Ma un quadro più ampio, com’era stato, ad esempio, raccontata in decine di romanzi, seppur nella retorica del tempo, la lotta popolare, ancora nessuno ci ha provato, come se nascondesse una sua intrinseca vergogna, tale da meritare il silenzio.

Anche se a scriverla è un “esterno”.

A riguardo posso portare una mia esperienza personale, relativa a un mio romanzo che ha affrontato la guerra nella ex Jugoslavia e cioè I confini dell’odio, edito da Aragno nel 2002. Ebbene, il romanzo ricevette dall’Istituto italiano di cultura di Zagabria, diretto allora proprio da Patrizia Raveggi, traduttrice dei romanzi di Vojnović, un contributo per le spese di traduzione in Croazia. Gli editori furono felici del contributo, ma poi non se ne face nulla, quel contributo non fu mai impiegato, per timori di ritorsioni politiche nei confronti delle case editrici. Tanto il tema è stato giudicato scottante. E lo è ancora.

Invece Vojnović lo affronta, e lo fa nella prospettiva più azzardata, mettendo nel ruolo di protagonista e voce narrante il figlio stesso, di madre slovena, di un criminale di guerra serbo.

È molto interessante come l’autore affronta la questione nelle diverse prospettive temporali. Certo, il fatto che Vladan sia un “čefur” lo aiuta, gli consente almeno tre punti di vista diversi, quello sloveno per via di madre, quello croato per essere cresciuto a Pola nei primi anni di vita col padre lì ufficiale dell’esercito ancora jugoslavo e quello serbo, del padre e dei parenti di lui. In questo quadro l’autore affida al suo protagonista una parte di coscienza critica libera e autonoma, un po’ scanzonata anche, così da alleggerire attraverso l’ironia la pesante condanna nei confronti di una guerra assurda che ha tirato fuori il peggio a gente che forse per anni ha sedimentato l’odio dell’uno verso l’altro o, comunque, la rivalità, a dispetto della tanto conclamata fratellanza del motto titino “Bratstva i jedinstva”, cioè fratellanza e unità, che in realtà non c’è mai stata. Tanto che è bastato un allentamento della morsa seguito alla morte di Tito per scatenare tutto il livore che bolliva sotto il coperchio. “E tutto questo solo perché ognuno di loro aveva una qualche storia personale, di morti antiche mai digerite, delle quali non si erano mai fatti ragione” dice uno dei personaggi al giovane Vladan “Di qualche loro nonna o nonno, delle foibe, dei campi di concentramento. E quella storia in tutti questi anni li aveva rosi dentro, se la sussurravano di nascosto gli uni agli altri e aspettavano con pazienza che arrivassero neka druga vremena, altri tempi, tempi diversi, e allora avrebbero nuovamente parlato di queste storie a voce alta e davanti a tutti noi, e in loro nome avrebbero ucciso”.

I diversi momenti della vita di Vladan segnano anche le svolte del romanzo, la prima dall’infanzia ai sedici anni, quando, il padre trasferito a Belgrado, li costringe a tornare a Lubiana, e il nonno, vecchio poliziotto in pensione, mal sopporta che il nipote, a cui pure guarda con affetto e in spregio al padre serbo e alla propria figlia che l’ha sposato, non parli in sloveno ma nel serbocroato d’allora. Dove poi lo sorprenderà la finta notizia del padre morto in guerra e poi la scoperta della montatura per il suo vivere in clandestinità sotto il falso nome di Tomislav Zdravković e in continuo movimento, per fuggire alla condanna del tribunale de l’Aja per la strage di trentaquattro civili e la messa a ferro e fuoco del villaggio di Višnjići. Da qui il suo partire alla ricerca del padre, quasi a volersene liberare. “Ero dell’idea che mio padre non avrebbe più dovuto essere mio padre, dopo aver marciato su Višnjići (…) Mio padre doveva rimanere mio padre e non doveva trasformarsi nel generale Borojević, perché se mio padre diventava il generale Borojević, io sarei rimasto senza mio padre, e i miei unici dieci anni felici sarebbero svaniti con lui, rasi al suolo assieme al villaggio in Slavonia”.

Lo troverà? Non lo troverà? Sicuramente troverà gente, laggiù, che lo protegge, che denuncia le colpe degli altri come la famiglia di čika Danilo, zio Danilo, o EmirMuzirović-Loza e le sue guardie del corpo, tutte persone dai colloqui con le quali emerge la distanza che separano Vladan da loro. Un viaggio che lo cambierà nel profondo, tanto che quando la compagna Nadja, che avrà una sua parte soprattutto nel finale, gli telefona e lui si trova in Bosnia, in un gelido hotel, sente la voce della donna amata come estranea. “Una chiamata dall’aldilà, la distanza tra Nadja e me non si misurava in chilometri. Il mattino precedente l’avevo lasciata che dormiva, in un mondo al quale avevo la sensazione di non appartenere più. In qualche punto durante il viaggio avevo passato un confine invisibile, scivolando nella mia vita vecchia, dimenticata, e non ero più convinto di essere sempre quello stesso Vladan con cui Nadja voleva sentirsi”.

Vladan se ne accorgerà quando alla fine poi davvero, in un ristorante di Vienna, si troverà di fronte al padre, da lui chiamato quasi a invocarne il perdono. Ma avrà il torto di farlo attraverso la menzogna, millantando una innocenza che non ha. Menzogna che segnerà la sua fine, perché il figlio non è disposto a credergli, pur nel ricordo di un sogno interrotto a undici anni, quando era in attesa del padre che aveva promesso di portarlo a Cherso o a Lussino “in un’isola grande, più grande di Brioni, così grande da non credersi che sia un’isola”. Metafora forse di quella Jugoslavia che, a dispetto del titolo, ma anche a ragione del titolo è “moja dežela”, terra mia.

 

 

 

Goran Vojnović

Goran Vojnović (1980), scrittore e regista sloveno, è considerato uno dei più talentuosi autori della sua generazione. Dal suo primo e pluripremiato romanzo Čefurji raus! (2008), pubblicato in traduzione italiana da Forum nel 2015, ha tratto l’omonimo film e fortunate rappresentazioni teatrali. Con i successivi Jugoslavija, moja dežela (2012) e Figa (2016) ha ottenuto il premio letterario Kresnik per il migliore romanzo pubblicato in Slovenia. Le sue opere hanno abbattuto pregiudizi, impressionato i critici e attirato l’attenzione dei lettori più esigenti.