Il virus felice

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Indicazioni per trascorre al meglio un’eventuale quarantena

di Francesco Carbone

 

 

«Mi sono sorpresa a sperimentare un distacco tutto nuovo dai beni materiali, dall’esigenza di avere di più, di guadagnare meglio; un distacco che confinava con la generosità oltre che con una certa spensieratezza.»

(Ilaria Gaspari, Lezioni di felicità, Einaudi 2019)

 

«Socrate ha la capacità di essere felice in tutte le circostanze.»

(Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?)

 

 

In questi tempi di clausure colerose e colleriche potrebbe essere un buon compagno l’arioso libro di Ilaria Gaspari Lezioni di felicità (Einaudi 2019). L’autrice propone sei settimane di esercizi spirituali, e non come quelli terribili di Ignazio di Loyola (San Paolo Edizioni, 2014) per un problematico e ascetico contatto con il Creatore, ma per la felicità possibile adesso.

Felicità, si sa, è un vocabolo altamente sospetto. L’argomento si fece ancor più imbarazzante, almeno tra i pensosi, dopo la terribile sentenza di Adorno, che avvertì che scrivere una poesia – per Leopardi una delle massime gioie – dopo Auschwitz era diventato «un atto di barbarie» (Critica della cultura e società, 1951): figurarsi farsi una risata. Sarà anche per questo che sbuca sempre fuori da qualche buio meandro del nostro collerico Super-Io il sospetto che essere allegri sia neppure troppo vagamente di destra. Dimenticandosi che la felicità dei mortali fu una promessa della rivoluzione francese.

 

Per tirarci un po’ su, opporremo ai crucci di Adorno l’ilare Billy Wilder che – malgrado mezza famiglia sterminata proprio ad Auschwitz – già nel 1948 osava ridere dei tedeschi, e ancor più degli americani, nel meraviglioso Scandalo internazionale, mostrando una Berlino in macerie, con la Dietrich che interpretava il contrario di sé stessa: una diva del teatro di varietà che, dopo i fasti del terzo Reich, si riciclava offrendosi ai nuovi padroni del mondo per un paio di calze e un materasso. Wilder lo girò poco dopo un documentario sui campi di sterminio.

Un’altra che non riusciva a non ridere in ogni caso fu Hannah Arendt: con scandalo di molti, proprio mentre studiava gli atti del processo al tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann, e azzardando una prosa ironica nell’indispensabile La banalità del male: «Se la gente ritiene che si possa scrivere di queste cose solo in un tono di voce solenne… (…) Le dirò, ho letto le trascrizioni dei suoi interrogatori, tremila e seicento pagine, le ho lette, le ho lette con grande cura, e sono scoppiata a ridere non so quante volte – ho riso a crepapelle! Alcuni si indignano di fronte a questa reazione, ma io non posso farci niente. Ma so una cosa per certa: probabilmente riderei anche tre minuti prima di una morte certa. E questo, secondo i miei critici, sarebbe il mio tono di voce; non c’è alcun dubbio che il tono che prediligo è primariamente ironico. Il tono in questo caso coincide pienamente con la persona (…) e non posso proprio farci niente» (Conversazione con G. Gaus, in Antologia, Feltrinelli 2008).

 

Non si ride ma si sorride spesso leggendo il libro della Gaspari, che ci racconta come la filosofia antica le abbia dato, nel momento difficile di un abbandono amoroso, quando era non poco isolata dal mondo e con la tentazione di attribuirsi ogni difetto, i modi per guarire. Era già il comandamento di Epicuro: «la nostra sola occupazione deve essere la nostra guarigione» (Lettera a Meneceo, nota a tanti come Lettera sulla felicità, Einaudi 2014). Non più studiata per i riti dell’università ma per capire, la filosofia torna così alla sua prima vocazione, che non è la sapienza ma la saggezza. Il divorzio tra sapienza e saggezza si fece definitivo con Aristotele (cfr. Hans Blumenberg, La servetta di Tracia, il Mulino 1988) e da allora per secoli il divario non fece che crescere, arrivando senza scandalo a perpetuare corsi di laurea ormai plurisecolari dai quali si esce sapendo tutto di Socrate ma non prendendo neppure per scherzo in considerazione l’idea di vivere come lui almeno un giorno all’anno.

 

Gaspari propone un passo indietro che è un salto avanti: «un esercizio di felice dilettantismo, un esperimento esistenziale e filosofico privo di pretese filologiche eppure serio», seria come la vita che vorrebbe avere almeno la silenziosa élite di happy few (Stendhal, La certosa di Parma) che sa guardare la storia non sentendo contraddizione tra la partecipazione ai fatti del mondo e il distacco senza il quale non si può essere lucidi e sereni. La scoperta della natura aristocratica della felicità è forse una delle conseguenze involontarie del libro, che pure chiaramente dimostra che perseguirla e praticarla è un compito, un lavoro tutt’altro che estemporaneo e facile: le corrisponde un corredo di regole, di buone pratiche lunghe quanto la vita stessa.

Dunque, per iniziare, sei settimane in cui si seguono i principi di sei delle scuole filosofiche fondamentali: Pitagora, Parmenide, gli Scettici, gli Stoici, gli Epicurei, i Cinici. Quale rigoroso eclettismo! Come il Cicerone delle Tusculanae disputationes, Gaspari sperimenta tutto e coglie fior da fiore, non per una qualche coerenza astratta, ma per una condizione esistenziale purificata: quella che i greci chiamavano eudaimonìa. Si impara la sospensione del giudizio, l’utilità di dividere i problemi complicati in parti semplici per poi sintetizzare in una decisione, l’indifferenza verso le cose insignificanti, la cura per le cose che dipendono da noi e l’accettazione di quelle che restano nelle ferree mani della necessità: si arriva perfino a sospettare con Parmenide (e Severino) che il divenire non esista, e con Pitagora, Epicuro e i Cinici che la proprietà privata sia stupida. È un caleidoscopio che si riduce, nel vivere di ogni giorno, al comandamento essenziale di Simone Weil: la pratica dell’attenzione.

 

In tutto il libro si respira l’aria buona dei saggi bellissimi di Pierre Hadot, che per viatico riproponiamo: La cittadella interiore, Vita e Pensiero, 1996; Che cos’è la filosofia antica? Einaudi, 1998; Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi, 1999; La filosofia come modo di vivere Einaudi, 2008; Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, Raffaello Cortina, 2009.

Che la felicità sia più grande della verità era già la voce essenziale di Leopardi, e di Nietzsche che genialmente lo saccheggiò. E quindi: «Poco sapere, ma molto gioire / Ai mortali è dato» (Friedrich Hölderlin).

 

Ilaria Gaspari

Lezioni di felicità

Einaudi, Torino 2019

  1. X 150, euro 13