Imprevista consuetudine di poesia

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Su alcuni scritti di Marzio Porro

di Gabriella Musetti

 

 

La poesia viene incontro, a volte, in modo inaspettato, furtivamente come volesse emendare una lunga dimenticanza, sottrarsi d’improvviso al nascondiglio in cui riposava in attesa di un nuovo sguardo. Anche la poesia già lungamente letta, meditata si può imporre a nuove attenzioni, pretendere una presenza attiva che la rimetta in pensiero, nel circolo delle parole della mente e nelle suggestioni dei ricordi di letture precedenti, di incontri personali. Così, la banale occasione di una ricollocazione di libri nella libreria in tempo di prolungata permanenza in casa si trasforma in un incontro imprescindibile, su cui diventa urgente dire qualcosa.

Questo è accaduto alla scoperta di tre preziosi involucri emersi improvvisamente al mio sguardo tra altri libri: due plaquette e un manoscritto, un quaderno vergato a mano, di Marzio Porro, amico di lunga data, con relazioni alterne negli anni per le vicende delle vite. Marzio è un raffinato cultore della poesia, amante e assiduo frequentatore anche per il suo lavoro di docente di Linguistica italiana presso diverse Università, tra cui Trieste, con campi di indagine che, tra gli altri, si allargano dalle rime amorose nelle corti dell’Italia padana e veneta del Trecento e dagli antichi testi liguri-genovesi al linguaggio poetico di Otto-Novecento sul versante intertestuale, a problematiche testuali della Commedia. È anche cultore in proprio della poesia, dedicando alla scrittura, con disciplina assidua, alcune ore della mattina. E tuttavia è un divulgatore assai parco dei suoi versi, mantenendo un profilo basso sul piano della pubblicazione e circolazione, come alcuni grandi cultori sanno e hanno saputo fare, non tanto per una sorta di rappresentazione elitaria e scostante di sé, quanto per un amore assoluto e una dedizione profonda alla parola poetica.

Ora questi versi si sono imposti alla mia attenzione, ancora una volta, come una forma di necessità. A volte accade che qualcosa di noto si apra a diverse impreviste letture, e che si senta il bisogno di non deludere i testi scovati per una sorta di tacito rapporto relazionale con la scrittura. Li prendo in mano e li osservo: un quaderno nero, con copertina rigida, datato 2005-2006, in cui l’autore annota, ogni giorno, un testo di poesia scritto a penna. Una disciplina meditata di scrittura ma anche una autoriflessione, l’apertura di uno spazio mentale in cui comporre i molteplici frammenti che sono le esperienze minimali che quotidianamente tutti viviamo e tendiamo a lasciar andare, disperdendole nel continuum dei momenti che si susseguono senza sosta, con il cervello sempre impegnato in qualche urgente attività futile o profonda. Questo bisogno di fermarsi, di ascoltare le dinamiche interiori e porre mano alla scrittura come strumento di rispecchiamento visivo e determinato sulla carta di quanto accade, luogo di ogni confronto possibile, presente o anche futuro, che solitamente chiamiamo memoria, dice già molto della disposizione dell’autore.

I temi sono molti e appartengono a diversi ambiti, ma tutti si concentrano in una specie di assillante colloquio continuo che verte su amori (precari, imperfetti, appassionati, sfuggenti), rapporti con persone, soprattutto la madre, suggestioni che giungono da letture, eventi che accadono nel mondo e inquietano le coscienze, un confronto serrato con la fede e con Dio, una specie di battaglia estenuante sul tema del bene e del male, la salvezza e la perdizione, la scelta impossibile della libertà assoluta della vita e delle proprie esperienze senza i tormenti della colpa, il rapporto con la morte vista come figura da tenere costantemente sotto osservazione, perché reale protagonista di ogni vita umana, al suo termine. Un colloquio che è anche un ritorno di temi, di immagini metaforiche dense e cariche di significati, tra un tempo e l’altro della composizione, come ad esempio gli aironi, che si muovono nel cielo con la grazia leggera dei voli, nonostante la materia consistente dei corpi, o gli angoli (bui, a volte), luoghi di mescolamenti intrisi di fragilità, luoghi che attraggono e impauriscono, limiti della volontà.

La materia non segue disegni precisi o linee di movimento programmate, con un indirizzo già previsto e un obiettivo da raggiungere, si dà, invece, nella con-fusione degli accadimenti della vita quotidiana, si concerta, a volte, attorno ad alcuni nuclei tematici per un certo periodo, poi rallenta la presa, cambia direzione; altre volte ritorna su un tema già trattato, ma cambia la prospettiva e la scrittura diventa altra, anche se riconosciamo l’atteggiamento assillante e inquieto dell’autore.

 

(28/3/2005) «Bisogna sempre lasciare qualcosa/ per finta dimenticanza, o// come tutte le cose della vita/ attenzione scarsa, c’è un alone// attorno alle cose immediate/ dove si formano i sensi più duri// e gli amori… lì tutto deve/ scorrere senza presenza alcuna// della mente/ come se potesse ogni cosa// un alito di vento o il caso».

(26/4/ 2005) «Torno a fatica e smemorato/ è il giorno se la fine è solo// attimi di smemoria./ Fin da ora – ho solo sessanta// tre anni – comincerà la guerra/ per tenervi rigidi come// scarpe sulle sedie dei/ morti. Fin da ora dirò// Dio lasciami tutto o/ mi dannerò perché li amo// solo poco meno di te…».

 

La composizione dei versi ha una misura grafica e dispositiva che si ripete in ogni singolo testo, con una spezzatura a metà pagina e un richiamo sottostante che parte quasi dal centro della pagina stessa come a comporre, a due emistichi, un canto tenue a due voci, canto e controcanto. Anche se a volte le espressioni sono accese da impulsi forti e virulenti, da imprecazioni o violenze verbali improvvise il tono è generalmente sommesso, pacato, a formare un ritmo continuo che si muove da testo a testo, lungo l’arco degli anni e delle scritture. Come una forma di meditazione quotidiana mattutina, un esercizio spirituale imparato in qualche reclusione soggettiva temporanea e continuato, poi, negli anni, e prosegue ancora.

 

(13/4/2005) «Tutto si svuota e le ore/ cascano. Se un cuore inerte è più// chiuso lo strapperò, o basta poco/ perché sorga la tragedia,// ma i primi decenni sono stati/ duri e agitati da spettri// crudeli… Poi qualcuno con suo/ invisibile straccio ha lasciato// certi paesaggi incerti/ e malamente chiari: ho visto tutto// in una strana/ alba neoclassica e così// non può finire…».

(19/5/2005) «Mi scrivi dai Balcani e preghi/ in tono irriverente, i morti// sono sempre vicini e toccano/ le parti molli… non dimenticare/ l’allegro orrore che ci porta/ dal mio al tuo tramonto verso// l’ultimo niente: è solo/ impressione poi le case// risorgono, padri e madri/ miti dolce il ventre e più// non sarà ingenuo».

(30/9/2005) «Santa debolezza delle erbacce che/ la polvere nutre: c’è nella vita// un vigore stolto e tenace e / l’intelligenza è niente, forse// come il giglio di San Luigi./ Nei cuori, solo nei cuori è il// disegno del grande affresco/ dei cieli e attorno trionfi e rovine,// la dolcezza della ceramica/ i corvi che cercano, terribili// le fotografie…».

(27/12/2005) «Oppure cambiare costume/ vivere rifiutando sudore// odore, amore… Dentro/ carni trasparenti e sole come// urne d’alabastro. Ma/ le spalle alla luce fioca// il guizzo dell’inguine/ nero, il serpente della vita// cercano la loro strana onestà/ la redenzione sempre// sorridente dei miseri…».

 

Il tema della sessualità e degli amori è quello più ricorrente nei testi del quaderno, un tema analizzato, affrontato e sviscerato nei diversi aspetti, vissuto con esaltazione e sofferenza, una traccia indelebile carnale con cui fare continuamente i conti con lucidità e assumere su di sé come una condanna protratta e ineludibile.

Una plaquette composta nel 2002, edita a stampa per Interlinea edizioni di Novara nel 2003, è dedicata a Maria Corti, nell’anno della morte della illustre studiosa di letteratura e maestra dell’autore. Sono Sette lachrimae per Maria, un colloquio fitto con una presenza ormai separata dalla materia e tuttavia capace di ascoltare la voce di Porro. La lunga frequentazione che è andata oltre il rapporto accademico e pedagogico, per una sostanziale vicinanza di sentimenti ora segna questi versi, che sono di rimpianto e di consolazione in una concezione spirituale escatologica che riguarda i destini finali di ogni vita umana e l’attesa del compimento. Ma resta un dialogo a una voce sola, che ripercorre le tappe della relazione dialettica e la figura di Maria Corti delineata nella sua fermezza e lucidità di giudizio: «Alle conclusioni rallentavi/ intendere era disegnare// snodi logici e già le parole/ ne erano felici, gli occhi// assentivano a fermare il ricamo/ della verità. Ti era// rimasto, nonostante/ la fenomenologia, un residuo// del realismo dei santi/ o dei bambini e lo lanciavi// verso gli altri e il cielo come/ la tua santa eredità». Resta all’autore, oltre alla memoria di una consuetudine significativa e formativa, anche la gratitudine per quel «santo// pungiglione che sapevi usare/ con apparente cattiveria// ed era il solo/ amore che conoscevi». Un ritratto insolito e affettuoso di una grande accademica, critica letteraria, scrittrice, semiologa. Anche io la ricordo nella sua apparente fragilità e delicatezza e nei suoi giudizi netti e taglienti.

L’altra plaquette Se tace la mattina, edita nel 2008 per Signum edizioni d’arte, è impreziosita da sette opere del pittore Francesco Pedrini, che ha lavorato sulle poesie. Qui il colloquio si gioca sulla voce e sul silenzio, sulla luce e sulla oscurità, e il dialogo con le opere di Pedrini che accompagnano con linguaggio proprio ogni singolo testo diventa un gioco di rimandi e suggestioni, tracce aeree che si snodano sulle pagine, colori virati a grigi, neri, verdi scuri e tenui azzurri e tramature di rami intrecciati, aloni di colori spenti nello spazio vuoto. E qui, ancora una volta la voce di Porro parla di una “serena disperazione”, con un tono tranquillo, come una forma di esistenza tormentosa ormai consueta, accettata nelle sue dinamiche, da osservare quasi con un atteggiamento distaccato. «Accanto all’infelicità detta/ totale e a condizioni// invivibili porto un cuore/ leggero: mi sono edificato// in una sorta di sogno/ e la narcosi sembra// l’indifferenza degli agiati/ eterni. C’è nel mondo// una commedia divina e poco/ la offuscano i moralisti tristi…// Bisogna viverla come un ordine/ e con grato distacco: tanto// finirà…».

 

 

 

 

Marzio Porro nasce nel ‘42 a Cantù in Brianza e studia fino alla maturità classica a Como presso il liceo A. Volta; entra nel 1961 con borsa di studio nell’Almo Collegio Borromeo di Pavia dove frequenta l’ antica Facoltà di Lettere in felicissima e indimenticabile coincidenza con gli inizi del magistero di Cesare Segre, Dante Isella e Maria Corti con la quale si laurea nel ‘68. Gli anni che seguono sono dedicati all’avanguardia teatrale (regie con il “Teatro artigiano”) e all’ apprendistato filologico-linguistico su testi medievali e moderni che poi prevale così da arrivare nel ’73 all’ insegnamento universitario presso l’ Università di Trieste durata, con frequenti seminari all’estero, fino al 2002 quando passa all’ Università statale di Milano. Dal 2012 è un pensionato, per così dire, un po’ scioperato…