Mimmo Jodice a Capodimonte

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Il lavoro di una vita sarà custodito e reso disponibile nella grande istituzione museale

di Paolo Cartagine

 

Nel dicembre scorso è nata al Museo di Capodimonte a Napoli «La Casa della Fotografia Mimmo Jodice» dove saranno collocati i negativi e le stampe, la camera oscura con le annesse strumentazioni e la biblioteca donati da uno dei maggiori fotografi italiani del secondo ’900, tuttora in attività.

Verranno conservati e resi disponibili i materiali fotografici originali realizzati a partire dai primi anni ’60, veri e propri contenitori, che gli hanno procurato notorietà internazionale e che hanno fatto la Storia della fotografia per il suo innovativo linguaggio visuale.

Nato a Napoli nel 1934, è il secondo di quattro figli. A cinque anni rimase orfano di padre. Fra guerra e dopoguerra, dopo la scuola lavorò per sostenere la famiglia. Poi studiò da privatista musica, pittura e fotografia.

Grafico di mestiere, nel ‘62 sposò Angela Salomone, compagna nella vita e nel lavoro e madre dei suoi tre figli. Diventato fotografo professionista si impegnò a fondo «per acquisire esperienza e introdursi negli ambienti culturali idonei ad assicurare committenze e visibilità».

Tra i principali lavori che andranno a Capodimonte le originali ricerche e le acute riflessioni di Sperimentazioni, vero e proprio incipit della sua produzione, dove «l’empirismo delle mie sperimentazioni garantisce comunque chiara leggibilità e immediata comprensibilità dei temi trattati». Anche con immagini lacerate, ricomposte e sovrapposte, talvolta l’autore sovverte le tradizionali procedure di riproduzione per interrogarsi sulle potenzialità e sul ruolo del medium fotografico, esplorando i limiti di sguardo, materiali, tecniche e forme espressive. Una strategia operativa che con varie declinazioni userà sempre in camera oscura per ogni lavoro, perché «la forma e una conseguenza del contenuto».

Con Figure del sociale, Jodice – anche in relazione alla più generale situazione del meridione italiano – testimonia la complessità della società napoletana attorno agli anni ’70, indagando con attenzione i problemi di Napoli, dal colera alla sofferenza mentale, dall’emarginazione ai riti religiosi, dal degrado urbanistico al disinteresse per le periferie.

All’opposto, in Rivisitazioni ci racconta, con foto che dialogano tra memoria e apparenza delle cose, di una Napoli lontana dagli stereotipi della comunicazione di massa: luoghi vuoti e silenziosi, reali ma quasi fuori dal tempo.

Con Mediterraneo approda a un’originale rilettura circa l’attualità delle antiche culture che hanno visto questo mare come baricentro di tante genti e idiomi diversi, una riflessione critica proposta – come sottolinea Jodice – da un figlio del territorio bagnato da quel mare.

Nelle Città invisibili si sofferma sulla complessità architettonica e strutturale delle metropoli (fra cui Parigi, Boston, Milano, Napoli) tra storia e trasformazioni degli anni ’80, stigmatizzando il crescente consumo di suolo.

Mare è invece una collezione di paesaggi, dove l’acqua, gli orizzonti e le rive fatte di pietre e di scogli inducono l’autore ad affrontare «il tema del paesaggio interiore» e suggerire all’osservatore di guardare sempre oltre la realtà visibile.

Gli oggetti che lo circondano nella quotidianità è invece l’argomento di Eden, sviluppato per frammenti e dettagli che, isolati dal contesto, divengono ready made fotografici.

Di grande rilievo anche Transiti, un’indagine sul volto umano composta da dittici in cui vediamo accostati – in un muto confronto – ritratti, enucleati da alcuni dipinti esposti al Museo di Capodimonte, ai visi delle persone da lui incontrate nei suoi pellegrinaggi napoletani legati a Figure del sociale.

Jodice narra isolando sguardi, gesti e atteggiamenti della quotidianità inosservata, scenari, azioni e momenti qualsiasi, non gli eventi speciali.

Le sue foto testimoniano il suo continuo, inesausto scontrarsi con la «inafferrabilità del reale», elemento fondante di un’unica grande ricerca (che dura da oltre sessant’anni) perseguita con consapevolezza su strade non ancora battute, ovvero ripercorse con inedite prospettive, per corrodere le certezze delle consuete modalità del vedere e del fotografare.

Da cui deriva in lui l’insopprimibile bisogno di prendere l’attrezzatura fotografica, immergersi nel mondo, e muovere lo sguardo per raccogliere testimonianze visive e costruire narrazioni sui temi a lui cari – uomo, territorio, memoria – secondo angolazioni e configurazioni sempre diverse: un’esigenza connaturata nell’animo dell’autore.

Quattro le possibili chiavi di lettura in proposito: l’impossibilità di descrivere il mondo con esattezza, l’indistinguibilità fra realtà e raffigurazione mentale, l’ineludibilità delle metamorfosi legate allo scorrere del tempo, il non accontentarsi mai della prima impressione. Il tutto orientato alla semplificazione che porta all’essenzialità: solo gli elementi necessari e sufficienti.

Dunque un autore lontano dai concetti di fotografia quale «copia del visibile e di istante decisivo», tanto che le sue foto spingono chi le accosta a soffermarsi sull’asserita oggettività e sulla presunta superiorità documentativa della riproduzione ottico-meccanica, «perché comunque in ogni foto di tutto resta un poco».

Dal processo costruttivo escono foto in bianconero analogico (rare quelle a colori) con esiti formali sempre diversi e coerenti con i rispettivi contenuti, perché «l’apporto artigianale dell’autore deve essere incorporato nella foto quale traccia delle sue idee e del rapporto intrattenuto col reale».

Per Jodice il tempo consumato in camera oscura, mai rivolto al mero abbellimento estetico, è indispensabile alla maturazione dei suoi lavori.

Il risultato?

Le sue foto sono perimetri che racchiudono intrecci, ramificazioni e connessioni capaci di generare riflessioni, dubbi, stupore, ricordi e risposte a tante domande, perché per lui linguaggio e tecniche sono forme del pensiero.

Ogni sua fotografia è dunque fermo-immagine, immobilità infinitamente lunga, pausa, distacco, riquadro autosufficiente, silenzio che si interpone nel caos e nella casualità della vita. Ciascuna foto è per lui un’esperienza a se stante prelevata dal flusso incontrollabile delle immagini che la precedono e che la seguono, e che sfuggono per sempre.

Le sue fotografie non sono perciò registrazioni asettiche ma fusioni fra esteriorità del mondo e interiorità dell’autore.

L’effetto è indimenticabile e la sua produzione lo dimostra, produzione che appare quasi un corollario della tesi di von Hofmannsthal, il quale sosteneva che «l’essere umano scopre del mondo solo quello che ha già dentro di sé, ma ha bisogno del mondo per trovarlo».

 

1.

Villa dei Papiri

Ercolano,  1996