Kallocaina romanzo di Karin Boye

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Prima ancora che il sistema agisca, è il singolo cittadino a farsi dittatore di se stesso

di Luisella Pacco

 

Pensate a una goccia: pende da una foglia, da un cornicione, da un ramo. Pensate al suo tormento muto, alla lotta tra la tensione che la trattiene appesa e la forza di gravità che la tira ineluttabile verso il basso. Provate a immedesimarvi in essa, mentre si oppone, vibra, s’ingrossa, si allunga, si arrotonda, si allunga di nuovo, senza più ritorno, resiste ancora un momento, trema di un tremore disperato e definitivo, si rassegna, cade.

Ho questa immagine in mente da quando ho letto una poesia, Certo, fa male.

 

Certo che è duro quando le gocce cadono.

Fremendo d’angoscia pendono gravi

si aggrappano al ramo, gonfiano, scivolano –

il peso le atterra per quanto si arrampichino.

Duro essere incerti, impauriti e divisi,

duro sentir l’abisso attrarre e chiamare

eppure rimanere e non far che tremare

duro voler restare e voler cadere.

 

Tradotti forse infelicemente, questi versi tuttavia trasmettono un’immagine umilissima eppure potente, universale. Chi di noi, in uno o più momenti della vita, non è stato goccia, così dolorosamente scisso tra il desiderio di voler restare e voler cadere?

Questa poesia è di Karin Boye, e io vi chiedo di tenerla a mente, perché molti dei personaggi di questa autrice sono come quella tremula goccia, in perpetuo conflitto tra rigidità e libertà, obbedienza e trasgressione, volontà di aderire a criteri e ideali imposti dalla società e la necessità vitale di ritrovare la spontaneità che da questi stessi ideali viene repressa, umiliata.

Ma chi era Karin Boye? Voi la conoscete? Io l’ho scoperta solo poche settimane fa. Colpa mia senz’altro, eppure va detto che l’Italia non è stata generosa nei suoi confronti, traducendone solo un’antologia poetica e un unico romanzo, quello di cui vi parlerò.

Nata a Göteborg nel 1900, Karin Boye nell’adolescenza si avvicina al buddismo, a diciott’anni abbraccia il cristianesimo. Nel 1921, iscritta all’Università di Uppsala, entra in contatto col movimento pacifista Clarté. Nel 1922 pubblica Nuvole, le prima raccolta di poesie. Nel 1929 sposa un attivista di Clarté, ma il matrimonio dura poco. Nel 1932-33 Karin si sottopone a una terapia psicanalitica a Berlino, per affrontare tendenze lesbiche che portano alla fine dell’unione. Nel 1934 inizia una convivenza con una ragazza tedesca molto malata, esperienza che pesa sulle spalle di Karin per l’eccesso di responsabilità e attenzioni che le viene richiesto. Nel 1940 si sposta presso un’altra amica di cui è innamorata, anche questa gravemente ammalata (non può essere un caso: Karin si punisce, cercando la sofferenza?). Un giorno di aprile 1941 esce di casa con del sonnifero in tasca. Viene ritrovata morta qualche giorno dopo, nel bosco.

Non può non venire in mente Virginia Woolf che solo poche settimane prima, in marzo, si era suicidata gettandosi nelle acque dell’Ouse.

Anime simili, forse, egualmente straziate, che cercano e trovano la morte in un bosco, in un fiume, come se la Natura fosse un grembo che accoglie e consola con una tenerezza che il mondo civilizzato non ha saputo riservare.

Qualcuno ha intravisto nell’opera di Karin Boye il dramma interiore dovuto alle ambiguità sessuali non del tutto elaborate e accettate. Io ci vedo piuttosto la pena che le derivava dall’aver visitato, da sola e con una delegazione clarteista, la Germania di Hitler e la Russia di Stalin. Che impressioni ne aveva tratto, quale angoscia, quale pessimismo?

Kallocaina, del 1940, è il suo ultimo romanzo. Nelle sue pagine, Karin aggruma come nubi nere tutta la sfiducia nel futuro e il timore per uno stato totalitario, spersonalizzante, disumano.

Sarò onesta: di letteratura distopica avevo letto assai poco. In ordine cronologico di pubblicazione (non di lettura) potrei citare Noi di Zamjatin (1921), Il mondo nuovo di Huxley (1932), 1984 di Orwell (1948), Fahrenheit 451 di Bradbury (1953) e poco altro. Né avevo ben presente alcuna voce femminile. Quella di Karin Boye, abilissima nello scavare nelle pieghe psicologiche dei personaggi, è stata un’intrigante sorpresa.

Romanzo molto particolare (mi è persino imbarazzante parlarne, non volendo rivelare troppo della vicenda né della straordinaria svolta finale), rispetto ad altre più note storie distopiche Kallocaina è caratterizzato dal fatto che la dittatura non è al di fuori dell’individuo bensì dentro di lui. Lo Stato ha messo radici nella sua personalità, ne domina i sentimenti. Così, prima ancora che il sistema agisca, è il singolo cittadino a farsi dittatore di se stesso.

Protagonista è lo scienziato Leo Kall, inventore della sostanza che da lui prende il nome, un siero della verità che dovrebbe assicurare piena sicurezza e definitiva stabilità allo Stato Mondiale. È soddisfatto del suo lavoro, sedotto dalla sua missione. La kallocaina consentirà allo Stato di controllare ciò che si agita nel cuore della gente. Segreti, riflessioni privatissime, sogni di libertà, insoddisfazioni taciute, paure sempre dissimulate, non esisteranno più. Un liquido verde iniettato in una vena annullerà ogni pudore, ogni cautela, ogni silenzio.

Kall è convinto che vada bene così, poiché quello che è personale è di per sé asociale, superfluo, persino dannoso. Lo Stato è tutto, il singolo non è niente.

Persino la “cultura” – escludendo le conoscenze tecniche – è un lusso da lasciare ai tempi senza pericoli incombenti.

E di pericolo incombente, qui ce n’è, eccome. Lo lascia intendere ogni indizio, che con geniale perizia e apparente disinvoltura Karin Boye semina sin dalle prime pagine.

Le persone lavorano e vivono sottoterra, e riemergono all’aria per pochi istanti al giorno (da chi o da cosa devono nascondersi?). Smessa l’uniforme da lavoro, indossano l’uniforme da tempo libero (ovvero non sono mai libere, in alcun momento della giornata). Sulla città sono sistemati enormi teli che possono, in caso di attacco aereo, oscurarla nel giro di dieci minuti simulando un paesaggio (ma chi è il Nemico che prima o poi attaccherà?). E così via, con dettagli sempre più rivelatori di una realtà opprimente e sinistra.

Il romanzo è ambientato in un luogo privo di indicazioni geografiche; le città prendono il nome dalle funzioni svolte (quella di Kall è la “Città Chimica numero 4”), l’atmosfera è claustrofobica, il controllo ossessivo, il ministero della Propaganda attivo e severissimo.

Ma – ed è questo che colpisce soprattutto – anche da solo Kall si censura, vietandosi ad esempio di parlare con la moglie nell’ascensore, perché giustamente (così ritiene) qualcuno potrebbe pensare che stiano discorrendo di attività proibite e antistatali. Meglio attendere di entrare in casa, dove l’assistente domestica potrà ascoltare e testimoniare la liceità della loro conversazione.

Già, la moglie… Linda. Linda che lo ama, non lo ama, ama un altro? In una dimensione così alterata e cupa, come comunicare – come concepirli, persino – il dialogo, la fiducia, la complicità, la passione?

Eppure, sull’amore Leo si interroga spesso. Si ha un bel parlare dell’amore come di un concetto antiquato e romantico, ma io temo che esista, e che contenga, fin dall’inizio, un elemento di indicibile dolore.

Pagina dopo pagina, le certezze di Kall si sgretolano. L’appassionato convincimento che lo Stato venga prima di tutto, che il singolo debba annullarsi, che la libertà individuale non conti, lascia il posto alle esigenze più intime, più naturali, dell’essere umano.

Ricordate la goccia? Ecco, è adesso che vi chiedo di ripensare a quei versi di poesia.

Come la goccia, così Leo lotta tra voler restare e voler cadere, tra terrore e fiducia, tra obbedienza cieca e anelata libertà.

Il romanzo non è altro che questo: la storia di un conflitto interiore, di una consapevolezza nuova che prende forma.

Proprio lui, lo scienziato che ha inventato il modo di estrarre a forza la verità, capirà che questo è un ossimoro irresolubile, che “verità” e “forza” non possono stare nella stessa frase, che la Verità – quella importante, autentica, quella che rende Uomo l’uomo – è fatta d’altro.

 

 

Karin Boye

Kallocaina

Iperborea, Milano 2000

  1. 228, euro 12,50