Giulio Montenero

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Intervista con lo storico direttore del Museo Revoltella

di Gabriella Ziani

 

«Mi scusi, mi perdoni». Lo dice con dolce affabilità a ogni interlocutore. È fedele al timbro di una faticosa infanzia di cui sente il peso ancora adesso, a 95 anni. Ma da quel tenue approccio esplode poi con potenza il personaggio esuberante di Giulio Montenero, direttore del Museo Revoltella dal 1961 al 1989,  ma in precedenza maestro elementare («per timore di restare orfano senza un impiego, lasciai il classico e presi il diploma magistrale»), poi giornalista di cronaca, e critico d’arte. In tasca il diploma magistrale, quello classico recuperato, quello scientifico, una laurea in Filosofia con tesi sperimentale in Psicologia (esattamente: Caratteriologia). Studi di arte, urbanistica, politica, storia. E da ultimo, per mettere in chiaro le cose, anche scrittore con tre libri stimolanti, di grande spessore e gradevolissimo stile, articolati tra memoria privata e familiare, polemica pubblica, storia locale e internazionale, politica spicciola e finanza globale, dialoghi con amici su grandi temi e messaggi istruttivi diretti ai due figli, Giovanni e Francesco (Parlandone da amico. Trieste, Vicenza, quasi un secolo di vita nella lettera a un amico, Lint 2017; Processo contro me stesso, Battello stampatore 2020; Ieri a Trieste, idem 2022).

La sua antica casa nel verde sul colle di Chiadino, dove a parte i primi tempi del matrimonio vive da quando aveva cinque anni, è (come egli stesso) incardinata nella storia. Costruita nel 1829, l’acquistò all’inizio degli anni Trenta suo padre Costante Cernigoj, ingegnere navale, figlio naturale di Ettore Klein, un ingegnere ferroviario di origini ebraiche, e di Teresa Cernigoj, nata nella valle del Vipacco. Quando il piccolo Giulio, nato nel 1926 da Costante e dalla maestra di Cherso Natalia Bolmarcich-Bonmarco, aveva tre anni, il cognome fu italianizzato in Montenero. E quella dimora porta in sé le radici: per volontà del padre (un padre cui l’autore rimprovera tuttora molto) gli scalini del giardino provengono dal vecchio ghetto distrutto, e il grande albero è un tiglio, simbolo dell’identità slovena.

Salita una scala elicoidale in pietra, ecco il salotto di Giulio Montenero e della moglie Rina, che gli è a fianco da una vita, e gli siede accanto solidale e partecipe: i libri occupano ogni spazio disponibile. Qui è il cratere del vulcanico intellettuale che, stanco di essere pudico e di sentirsi incompreso, ha riversato nella scrittura un patrimonio vibrante e coraggioso di tante vite e tanti mondi.

 

Dottor Montenero, lei ha competenza di filosofia, storia, arte, urbanistica, politica: cultura sterminata?

Ma no, ma no, è tutto un bluff. Noi giornalisti, lei lo sa, siamo sempre imbroglioni. Vede, per esempio io non so neanche una lingua straniera. Chi non sa un po’ di inglese, oggi? Nessuno, solo io. Più che altro ho una grande esperienza, ho fatto mestieri da cui si impara: prima maestro elementare in campagna, ad Anconetta nei pressi di Vicenza, 42 bambini, situazioni pazzesche… Pensi che il mio predecessore era un fascista, e un giorno ospitò un mascalzone fascista fuggito dal Sud. Questi si mise a corteggiarne la figlia, lui lo ammazzò. E io avevo come scolaro il figlio dell’assassino! Poi sono stato cronista, di “nera”, giudiziaria, “bianca”. E direttore di un museo, e quindi ero a contatto con moltissime persone, poi come critico d’arte avevo più o meno l’egemonia sul campo, al Piccolo, alla Rai, e per tredici anni ho collaborato con Radio Nuova Trieste della Curia. Per non approfittare della situazione, mi ero dato una regola: recensire tutte le mostre, anche quelle fatte in osteria, e mai parlar male di nessuno. Parlar male è una cattiveria. Se la mostra non mi piaceva, tiravo fuori una variante di discorso. E così tutti contenti.

In Ieri a Trieste lei scrive: «Se l’Europa è il male, l’Italia è peggio e Trieste è uno dei buchi più neri del mondo». Siamo così disgraziati?

Ma l’Italia è un paese scalognato, lo diceva già Goethe che in Italia non si può parlare con nessuno tranne che coi popolani, e quanto a Trieste è stata sempre problema centrale e cruciale. Lo disse Churchill: «Da Stettino a Trieste una cortina di ferro è scesa attraverso il continente». Quel che Günter Grass scrisse di Danzica nel Tamburo di latta io lo dico di Trieste: luogo di intima contraddizione, con tanti gruppi nazionali, porto di mare, emporio, dove la gente si dedica a tanti mestieri – mentre la città ha un carattere fondamentalmente conservatore.

Amaro passato, ma il presente è la guerra in Ucraina, come vive il momento?

Mi fa paura. Cerco di allontanare il pensiero, mi fa un tale terrore e orrore. Penso anche al patrimonio artistico, alle generazioni che via via hanno creato, perfezionato… E questi qui distruggono tutto, e in più per una ragione sciagurata, stupida. C’è una regressione nelle motivazioni. Anche la prima guerra mondiale fu sciagurata, ma dietro c’era un grande movente, pensiamo a Scipio Slataper, una figura gigantesca. C’era una vampata di romanticismo, di sentimento. Seconda guerra, vorrei essere abbastanza obiettivo, Mussolini voleva «rompere le catene che stringono il nostro mare»… Poi purtroppo si alleò a Hitler, tema molto grave. Ma adesso? Il tema è meschino, non è neanche un tema. Gli ucraini erano parte dell’Urss come tutti gli altri paesi, e oggi sono martiri. Ma martiri di che cosa? Il presidente ucraino Zelensky, parlando al Parlamento italiano, che lo ha approvato con una standing ovation, ha dichiarato che Putin sta per invadere l’Europa e ha dato per scontato l’intervento militare italiano in appoggio al suo Paese. Ma è evidente che l’Italia deve rimanere neutrale in un conflitto che non la riguarda direttamente. Altrimenti le conseguenze sarebbero paragonabili a quelle della prima Guerra mondiale, che ha causato 23 milioni di morti. In più, graverebbe sull’Italia la responsabilità della distruzione di oltre la metà del patrimonio artistico mondiale, il nostro.

Lei si è conquistato professioni, ha sapienza, è diventato scrittore a 90 anni passati, perché si descrive “vile, debole, pavido”?

Vede, io sono nato infelice, nel fisico, ho sempre avuto un aspetto puerile e in età adolescenziale ero oggetto di derisione. I genitori mi chiudevano in una protezione esagerata, intollerabile, ancora al ginnasio papà mi faceva accompagnare dalla domestica, temeva le mascalzonate di qualche “fascistello”. Ho cercato di reagire, dedicandomi alla politica. Ho scelto la situazione più tranquilla: mi vanto di essere un borghese, un moderato, sono conformista, un po’ vile. Se mi trovo in una discussione, do sempre ragione all’altro. Mia moglie mi rimprovera: dai ragione a tutti. Ma io sono nello stesso tempo un uomo tranquillo e un uomo in lotta, in un mondo di imbroglioni quel che non tollero è la frode, e così mi trovo in battaglia con tutti.

I suoi strali vanno alla finanza, ai “poteri forti”, all’informazione conformistica, alla falsificazione della storia, al narcisismo degli scrittori… Chi si salva?

I lavoratori appassionati. Chi mette la propria dignità al di sopra dei vantaggi materiali. Quando lavoravo al Piccolo, coi colleghi ho avuto rapporti pessimi: avevano sempre un comportamento dispettoso verso la proprietà, erano contestatori, irriverenti. Però poi lasciavano correre tante cose. Io dicevo: mi pagano, devo scrivere quello che vogliono. Invece coi tipografi un rapporto eccezionale, di stima. Prima, al Giornale di Vicenza, dove la proprietà era Lanerossi-Marzotto, dunque liberale, io comunque pensavo che, cattolico per convinzione e pratica, dovevo sempre essere onesto. Feci un’inchiesta da cui risultò che un’organizzazione cattolica tratteneva indebitamente parte dei soldi che riceveva dallo Stato per orfani e colonie dei bambini. Scrissi la denuncia. E il prete incolpato mi prese in simpatia, quel comportamento gli pesava sull’anima. Poveretto, fu poi aggredito e ucciso da un fanatico neonazista. Io l’ho scampata bella, bisogna dire.

E oggi deplora che i suoi figli siano cresciuti fra i “furbetti del quartiere”. Il mondo di ieri era sempre meglio?

Il periodo migliore è stato quando la borghesia era al potere, quando vigeva il costume borghese tutto era meglio da ogni punto di vista. C’era fioritura di professioni, di libertà civili. L’epoca migliore, quella di Giolitti: un regime liberale, borghese, capitalista, le leggi erano rispettate, la dignità era un valore irrinunciabile.

Lei è ancora in conflitto col papà severo, ma suo padre – ci racconta nei libri – era un ingegnere navale coltissimo di musica e arte, e un giorno la portò a visitare il Museo Revoltella, e lei bambino sognò in quel momento di andarlo a dirigere…

Sì, è vero, e prima ancora c’ero andato con la scuola, in via Donadoni avevamo anche il museo scolastico, ne ero affascinato. Ma poi al Revoltella sono arrivato per caso, casi della vita davvero… Agli inizi degli anni Sessanta il posto di direttore era vacante. Proprio nessuno me l’aveva detto. Io lavoravo al giornale, andavo pure in cerca delle foto dei morti, ma poi facevo tanta critica d’arte, e un giorno mi trovo alla Biennale di Venezia, e incontro Marcello Mascherini, che esponeva. Non eravamo confidenti, io lo trattavo con deferenza. E però mi disse: «Concorra! Noi abbiamo bisogno di lei».

E così cominciò una grande avventura, con le gravi complicazioni per il restauro e ampliamento del museo firmati da Scarpa, e conclusa bruscamente nel 1989 con le sue polemiche dimissioni: tutto ciò lei ricostruisce in dettaglio.

La storia parte con Revoltella, un austriacante, cattolico. Ma poi misero a capo del museo Felice Venezian, massone, irredentista, anticlericale, tutto il contrario. E fu Venezian che pensò di allargare il museo al palazzo attiguo, di allestire un centro di formazione, e di collegare zona antica e nuova. Io ho attuato l’idea di Venezian. «Lei è un cretino – mi disse Scarpa –, museo è museo, e scuola è scuola». Poi ci pensò su, e si mise a disegnare.

Oggi come vede la situazione?

Oggi è una vergogna che sia stato abolito il ruolo di direttore del Revoltella. Revoltella ha lasciato i suoi beni con un vincolo, obbligando il Comune alle sue volontà, dunque con l’obbligo di nominare un direttore. L’Italia è un paese servile, e in Italia la città più servile è Trieste, questa è la verità. Si usa il museo come un giocattolo. Del resto oggi c’è un conflitto sulla concezione stessa di museo, museo è sempre stato un rilevante bene materiale – definizione del filosofo Krysztof Pomian, non mia – che viene sottratto alla produzione e al consumo per essere consegnato alle generazioni successive. Le cose materiali raccontano ciò che non si può scrivere: esempio insuperabile le Piramidi. Oggi invece il museo è diventato “turistico”, siamo scesi molto in basso. Basta vedere quel kitsch di Castello di Miramare (architettonicamente kitsch lo è, ammettiamolo): secondo per visitatori dopo gli Uffizi, dicono. Una bestemmia.

Si è mai pentito di aver dato le dimissioni?

No, mai mi sono pentito delle decisioni che ho preso secondo la mia indole, il mio carattere, la coerenza con la mia vita. Perciò sono fortunato. Ho sempre fatto cose autentiche. Anche con mia moglie, un rapporto autentico. (Dice la signora: “Siamo assieme da 65 anni…”).

Com’è la vostra storia?

Un mio amico, che poi mi fu cognato, aveva ereditato dal padre la farmacia, a Resia, e si sentiva un po’ costretto… Un giorno, in una bella trattoria di campagna, sapendo che studiavo filosofia si mise a discettare di Così parlò Zarathustra, libro per tutti e per nessuno, e io, che volevo fare il gradasso, gli diedi corda. Sua sorella, molto accorta, una che non si lascia imbrogliare, disse: «Quel cretino di mio fratello ha trovato un cretino come lui». Ma guarda, pensai, ha capito tutto questa ragazza. L’atteggiamento critico e ironico a priori mi piacquero. Da allora ci siamo sempre voluti bene. Un grande regalo della vita. Non avrei fatto niente senza una moglie così. Non protestò neanche quando, lasciando il giornale per il Revoltella, mi trovai con la paga dimezzata.

E i genitori?

Contrari. Come erano stati contrari al matrimonio. Volevano controllare anche chi sposavo. Dicevano: «È timido, è vile, è pauroso, ha bisogno di una moglie calma, che gli porti una dote» (Aggiunge la signora: “E io non avevo una lira”). Non parteciparono alla cerimonia. Noi andammo a vivere nel sottoscala della Casa degli sposi in via Fabio Severo. Poi per pietà mi diedero l’appartamento dell’usciere nel palazzo dell’Anagrafe, dove restammo per dieci anni, con parecchi disagi. In questa centenaria casa di Chiadino siamo venuti a stare dopo la morte dei miei…

Uscirà un nuovo libro?

No, no, adesso scrivo di teologia. Di liturgia e arte ho parlato per tanti anni a Radio Nuova Trieste (e un bel giorno: «Tu non scrivi più». E neanche un grazie!). Avevo un sogno: conversare con un gesuita di teologia, quella ufficiale, vera, un tema ricchissimo… Adesso, poi, con questo fantastico Papa Francesco, che dice cose sconvolgenti!

Il giorno più felice della sua vita?

Vediamo… Qualche settimana fa ho letto una bella recensione al mio ultimo libro. Sono stato capito. Sì, è stato quello il mio giorno più felice.

 

 

 

Giulio Montenero

foto di Giovanni Montenero