La Perugia gialla di Carla Carloni

| | |

di Walter Chiereghin

 

È una città all’apparenza felice, Perugia: arrampicata in collina, la prospettiva spalancata sulle valli dell’Umbria, conserva con opportuna gelosia l’aspetto medievale in tante sue viuzze inerpicate a scalare il centro storico arroccato sull’area che fu dell’acropoli etrusca e che ruota attorno alla Fontana Maggiore di Nicola e Giovanni Pisano. Vi si respira un’aria di sicurezza economica, di una cultura che poggia su una stratificazione ben più che bimillenaria di civiltà sovrapposte, mentre la presenza di masse giovanili cosmopolite attratte qui dalla presenza dell’Università per stranieri anima vivacemente strade e piazze, proiettando negli anni a venire la storia che qui è accumulata ad ogni angolo, a ogni svolta di via.

È la città di Carla Carloni, triestina solo d’adozione, ma che ha qui le sue radici, tra le mura della piccola capitale umbra, dove ha trovato materia per il suo ultimo romanzo, L’unica verità possibile, un noir in qualche modo ambientato necessariamente a Perugia (che pure non viene esplicitamente nominata nel libro), probabilmente in evocazione di alcuni fatti di sangue e di criminalità che hanno avuto ampia risonanza nella cronaca nera non solo nazionale, primo tra tutti il giallo della giovane studentessa inglese Meredith Kercher, assassinata in circostanze tuttora avvolte nel mistero ormai dieci anni fa.

La cittadina del romanzo è tutta giocata tra una visione notturna, in cui il buio nasconde insospettabili nefandezze e una contrapposta narrazione diurna, dove la luce meridiana enfatizza l’aspetto rasserenante di una provincia operosa e quietamente borghese, ove decoro e rispettabilità costituiscono i valori fondanti che si auto-alimentano in seno a un microcosmo di relazioni in parte generate da interesse, in parte genuinamente amichevoli, ma comunque arroccate all’interno di una cerchia ristretta ed escludente.

È parte essenziale di questo clan Vittorio, vice direttore della Banca locale (guardate un po’ se la fantasia dell’autrice non s’interseca con le cronache vere di questi nostri tempi), in attesa di un’ormai imminente promozione. Per molti versi Vittorio si sente inadeguato e invecchia piuttosto maluccio. Per dirne una: passa le notti a una finestra che affaccia su un viottolo dove gli è possibile spiare le coppiette che vi si appartano, “vizietto” che gli risulterà fatale. Quando durante uno di questi suoi appostamenti notturni vede qualcosa che non avrebbe dovuto né voluto mai vedere, tanto per restare fedele ai “valori” del felpato gruppo sociale di cui è espressione, invece di avvertire la polizia si rivolge a un giudice che conosce, dando in tal modo avvio a un’indagine che alla fine darà i suoi frutti, ponendo termine alla più ripugnante delle vicende che, col favore delle tenebre, si materializzavano a pochi passi dalla sua finestra.

Il recensore di un libro di questo genere deve naturalmente fare attenzione a non fornire a chi lo legga nessuna indicazione più precisa, per cui chi scrive non è nella condizione di addentrarsi ulteriormente nella trama ben congegnata del romanzo della Carloni. Basti dire che quanto probabilmente era nelle intenzioni della scrittrice, la rappresentazione cioè di una società intimamente differente dall’immagine che intende fornire di sé è – anche in questo libro – perfettamente riuscita, forse addirittura al di là delle intenzioni, dal momento che ogni singolo personaggio del romanzo si adopera per ripianare la situazione e riportarla allo stato di quiete bruscamente interrotto dal delitto che, come un sasso gettato in uno stagno, aveva prodotto un improvviso incresparsi della superficie. Ma appunto superficiale è quella ritrovata armonia piccolo borghese: sotto di essa, le ipocrisie e il fingere di non vedere, o addirittura la menzogna di un prete per salvare questi feticci del decoro e della rispettabilità.