Il mio amico vitello

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di Marina Silvestri

 

Nove racconti dello scrittore e poeta sloveno Boris Pangerc, tradotti in italiano, sullo sfondo del Breg, il territorio a sud est di Trieste che precede l’Istria, narrano l’identità nazionale e generazionale del periodo di passaggio seguito al secondo dopoguerra nel comune di Dolina. Il libro si intitola Il mio amico vitello. Storie di imprinting che vanno dall’infanzia all’adolescenza alla maturità, intime e universali, nella bella traduzione di Marija Cenda, che attinge a molte espressioni del dialetto triestino, come ‘mularia’, ‘clapa’, ‘ciacole’, creando una koinè che unisce il mondo di città a quello della comunità slovena del circondario. Una comunità rurale dove il rapporto con gli animali pur essendo destinati al lavoro e al macello dimostra un legame affettivo e di rispetto che nulla ha a che vedere con gli attuali allevamenti in batteria, a cui si aggiunge un sentimento d’amore profondo da parte dei bambini, cuccioli anch’essi.

I racconti di Pangerc toccano vari momenti della formazione della sua personalità che va dalla perdita dell’amato vitellino Lisko – “i suoi occhi erano profondi, rassegnati come quelli di un bambino” – che inconsapevolmente avvelena pensando di curare, alla lezione di vita che gli impartiscono i membri della famiglia. Lo zio che accompagna a raccogliere il muschio per il presepe sotto San Servolo risponde ad una sentinella Jugoslava che li allontana bruscamente perché hanno sconfinato di pochi metri: Siamo stati partigiani anche noi e ci siamo battuti insieme per questo vostro confine… se proprio dovete custodirlo, potreste farlo anche con meno arroganza! Mentre il padre gli insegna la pietà per la vecchia Vanza del klanz, che i ragazzini canzonano e rincorrono, ed ha alle spalle una vita di tragedia e sofferenza. Come in altri passi anche in questo racconto la descrizione dei luoghi regala un affresco di grande verismo: Il gelo imprigionava le vigne e i frutteti; i pastini, le vie, gli stradoni e i sentieri di campagna che sembravano lastricati di vetro. Il villaggio era paurosamente tranquillo. Dalle querce, dai tigli e dai castagni penzolavano rami nudi e infreddoliti, mentre gli spifferi della bora spazzavano via il ghiaccio e la polvere delle strade formando turbini di nebbia. Si stava bene soltanto accanto alla stufa. Quando i gatti si stringevano vicino al fuoco, significava che il freddo sarebbe aumentato. Mio padre aveva l’abitudine di accendere il vecchio sparghert di ghisa nel deposito davanti alla cantina. Diffondeva un piacevole tepore. Talvolta entrava qualche parente, si puliva le scarpe sulla soglia, si chinava per accarezzare la bestiola – che si scherniva drizzando le orecchie – e andava a prendersi da sola la tazza appesa sopra l’acquaio, poi si metteva a bere con mio padre dipanando la matassa dei tempi passati in vane “ciacole” sul futuro. Un giorno entra Vanza, ospite assidua davanti al lambicco dove si distillava la grappa. Dopo di lei nessuno usava più il bicchierino dal quale la vecchia aveva succhiato avidamente il petés. Una natura dura d’inverno che d’estate ‘scintilla’, aggettivo che Pangerc adopera spesso per descrivere la solarità del Breg, così diversa dalla durezza del Carso, irriconoscibile dopo la posa delle infrastrutture del terminal dell’oleodotto transalpino. Sul pendio meridionale del Montedoro il tempo ha scavato nell’arenaria un profondo fossato che scende dolcemente con molte anse per raggiungere il Rosandra nella parte più bassa della Vale, dove oggi s’inarca la severa geometria dei serbatoi di nafta, mentre nel passato verdeggiavano i campi, i vigneti, gli uliveti. Questo fossato sfocia nel sinuoso pendio del Brdo e della Teža che segnano il confine fra le aree di Dolina, di Mačkolje e di Prebeneg. E nel punto dove dal vasto canalone un boschetto di pini, misti a frassini e carpini, sale verso la cima più alta, si trova Kaličje, un’idilliaca radura, sormontata da un ponte di assi, radura erbosa dal lato solatio e pietrosa dal lato opposto. I ragazzi del posto, decidono un giorno di farne un luogo d’incanto, un giardino da fiaba tanto che una delle ragazze rimane prigioniera di questo sogno: “Qui vorrei avere un castello”, disse con voce soave e mi guardò come nessuna donna seppe più farlo… Come ha osservato nel corso della presentazione del libro il critico e storico letterario Miran Košuta, la narrativa di Pangerc “Fiorisce con mediterraneo rigoglio, etnograficamente preziosa e linguisticamente elegante. Possiede inoltre una coscienza naturalistica molto rara nella letteratura slovena tout court. Fa emergere la preoccupazione per un ambiente sano e incontaminato e la protesta contro gi scempi e i delitti ecologici che erodono le radici di ieri e il domani, non solo all’esigua comunità.” Košuta ha parlato di narrativa “autoriale, accorata e personale, intima, sensibile, eticamente, socialmente e nazionalmente impegnata. Campeggiano fra le tematiche, l’urbanizzazione, l’industrializzazione, l’espropriazione della terra e l’inesorabile agonia del mondo rurale sloveno alle porte di Trieste. C’è l’opposizione paese/città, natura/tecnica, patriarcalità/modernità, nostrano/straniero, sloveno/italiano.“ E non è un caso se un ruolo di primo piano nelle storie lo riveste il capolinea dell’autobus che porta in centro città, punto di congiunzione, cordone ombelicale, collegamento con le realtà lavorative o di studio, nonché ritorno nella dimensione natia. Queste antitesi sono particolarmente evidenti in quello che è forse il racconto più intenso Fiori di sangue e di struggimento. Un racconto perfetto come descrizione dei caratteri, delle atmosfere e della progressione degli eventi. L’autore parla di un’estate maledetta, come ce ne sono nei ricordi di molti, in quell’età di passaggio alle soglie della maturità, quando si alternano amori e fragilità e il destino si abbatte segnando per sempre la fine dell’età dell’innocenza. Recita l’incipit: Nella fiacca calura del pomeriggio estivo avevamo l’abitudine di recarci, ognuno col proprio motorino, all’abbeveratoio del paese. Ogni giorno alla stessa ora del tardo pomeriggio si ripeteva questo rito. Ci trovavamo alla Šanca per fare due chiacchiere, per non perderci di vista durante le vacanze. I nostri incontri rassomigliavano più che altro allo sciamare dei calabroni. Seguivamo il richiamo dell’irrequietezza adolescenziale. Dopo avere accostato al muro i nostri motocicli ronzanti, ci lasciavamo trasportare dal brusio in un mondo isolato, immersi nel calore nel nostro silenzioso e gelosamente protetto stare insieme, favorito da una viva e sincera amicizia e dal comune destino di vittime della scuola. In questo racconto compare come luogo dello spirito l’abbeveratoio del paese, che rispecchia la realtà agreste e il mondo di ieri che ancora fa sentire la sua presenza; come tutti i punti dove l’acqua sgorga, induce le persone che vi si raccolgono a parlare, filosofare, disquisire sul mondo in libertà. Ricorda i dialoghi dei personaggi di Pier Paolo Pasolini ambientati nelle periferie dove Roma sconfina con l’Agro; Pasolini, l’intellettuale che più di ogni altro ha denunciato la fine del mondo contadino atavico e l’omologazione e la perdita di identità indotte dall’industrializzazione, ben prima che la globalizzazione si affacciasse all’orizzonte delle coscienze. Nella prefazione Elvio Guagnini afferma che Pangerc “riesce a coniugare memoria presente e futuro, realtà e fantasia, micro e macrostoria, illusioni e consuetudine, concretezza e speranza; e riesce a dare il senso del mondo che cambia, dove – però – si rivela importante la conservazione della memoria e della propria identità anche in nuovi sviluppi del contesto”.

 

Copertina:

Boris Pangerc

Il mio amico vitello

Traduzione in italiano di

Marija Cenda

Ibiskos Editrice Risolo, Empoli 2017

  1. 118, euro12.00