Henry Miller non è letteratura erotica

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Una produzione letteraria largamente incompresa, spesso censurata e calunniata, derisa e sottovalutata

di Francesca Schillaci

Avrei dovuto scrivere «I libri di Henry Miller non sono letteratura erotica», ma non sarebbe stato corretto: Henry Miller e le sue opere non sono separabili. Lui è la sua letteratura. E non è erotica, ma rivoluzionaria. Per questo incompresa, fuorviata, censurata, calunniata, derisa e sottovalutata.

Henry Miller (1891-1980) condannò per tutta la sua vita il conformismo e l’uccisione dell’immaginazione nell’uomo, aspetto quanto mai necessario per vivere appieno la propria esistenza. Il suo rifiuto all’obbedienza di leggi e comportamenti alienanti e scandalosi nel loro puritanesimo, diventò per Miller la missione da sostenere al fine di lasciare una voce che potesse svegliare le coscienze, come è successo con Socrate, Sade, Nietzsche, Dostoevskij, L.H Lawrence. Baudelaire. Rimbaud. Non nomino a caso queste personalità, poiché tutte sono state degli esempi necessari a Henry Miller per capire il disagio dell’uomo moderno, esempi poi da distruggere e abbandonare, superandoli. Come? Trovando la sua voce. Per farlo, Henry Miller dovette lasciare tutto e cadere giù, nel baratro più basso e raschiarne il fondo fino a farne una condizione di vita inevitabile per scoprirsi ed elevarsi. Tropico del Cancro (1934) non è solo la sua opera in assoluto più conosciuta, ma è la conferma di questa liberazione, ad oggi ancora fraintesa. In precedenza, Miller aveva già scritto altri due romanzi (Moloch e Uccello pazzo, pubblicati postumi) entrambi rifiutati dagli editori perché considerati troppo espliciti e incoerenti nello stile, cosa quanto mai insostenibile seppur in parte reale, perché ancora non aveva sganciato il freno della sua volontà più intima. Tropico del Cancro non è un romanzo, ma un canto liberatorio e viscerale, un tentativo riuscito di parlare al mondo, senza escludere nessuno, partendo dai bassifondi e spezzando tutti i canoni stilistici prescelti dai critici letterari: «Non ho né soldi, né risorse, né speranze. Sono l’uomo più felice del mondo. […] Un anno, sei mesi fa, pensavo di essere un artista. Ora non lo penso più, lo sono. Tutto quel che era letteratura, mi è cascato di dosso. Non ci sono più libri da scrivere, grazie a Dio. E questo allora? Questo non è un libro. È libello, calunnia, diffamazione. […] Quel che conta è voler cantare. E dunque questo è canto. Io canto». (Tropico del Cancro, 1934). Una lirica alla vita, all’oscenità di fronte all’omertà, alla brutalità dell’esistenza nei suoi aspetti più bassi, beceri, condannabili e allo stesso tempo più vivi, palpabili e intensi, esistenti continuamente sotto gli occhi di tutti e in cui tutti siamo coinvolti, quindi perché non vederlo? Perché non parlare dell’umanità per quello che dimostra essere veramente, un cancro che divora se stesso?

A Parigi, nel 1934, Tropico del Cancro venne pubblicato e accolto, ma non fu mai tradotto in francese e rimase accessibile solo dagli espatriati di lingua inglese. Nomi come T.S Eliot, Ezra Pound e George Orwell si congratularono con Henry Miller, definendo la sua opera “rivoluzionaria” e capace di svegliare i dormienti, una rottura necessaria e definitiva con i canoni classici della letteratura e della società. Nessuno di loro si soffermò sulla sessualità promiscua dell’opera, nessuno di loro ne trasse sconvolgimento o sconvenienza. Nessuno di loro la ritenne fuori luogo. Perché invece, ad oggi, quando si parla di Henry Miller l’unica memoria che si ha è quella dello “sporcaccione”? Come è possibile che non risulti ovvio e provocatorio che l’utilizzo della disfunzionalità sessuale nei suoi personaggi (tutti realmente esistiti) sia un simbolo di decadenza per dimostrare come la società occidentale avesse perso il “suo vero io” respingendo e reprimendo i desideri più profondi, uccidendo l’immaginazione per lasciare spazio alla paura come base dell’alienazione dell’uomo? Fino all’arrivo degli anni Sessanta, Tropico del Cancro non venne mai pubblicato negli Stati Uniti: censurato e vietato, il libro veniva comprato sottobanco da studenti delle università che avevano sentito parlare di Miller da professori audaci che ne consigliavano le letture nelle classi di Letteratura americana, o dalle riviste internazionali su cui erano stati pubblicati alcuni degli estratti più belli di Tropico del Cancro (1934), Primavera nera (1936) e Tropico del Capricorno (1939) grazie ad alcuni editori. Ma l’impatto che l’America lasciò sull’opera di Miller, il suo puritanesimo e perbenismo, a quanto pare ha effetti collaterali ancora oggi nel non saper riconoscere la grandezza non solo della ricerca estetica dello scrittore, ma dell’uomo che si celava dietro la sua arte.

«Il paradiso è ovunque» sosteneva Miller in uno dei suoi innumerevoli scritti, alcuni dei quali pubblicati nella raccolta Il giudizio del cuore (1941) e per rendersi conto di quanto sia possibile accedervi, dichiara con una inevitabile onestà che «ho superato il problema sociale morendo: il vero problema non è andare d’accordo con il proprio vicino o contribuire allo sviluppo del proprio paese, ma scoprire il proprio destino, crearsi una vita in accordo profondo con il cosmo. Essere capaci di usare, sprezzantemente, la parola cosmo, la parola anima, di trattare di cose spirituali». Abbandonare l’America, la ex-moglie e la figlia è significato morire; dire no al suo lavoro come direttore della Western Union Telegraph Service dopo dieci anni ha significato la scelta di vivere in povertà; partire per Parigi comportò anche la rottura con la seconda moglie June Mansfield, sua prima e ufficiale musa che, per mantenerlo, si prostituiva di sua spontanea volontà, e fu proprio lei, la Mara/Mona delle sue opere, che lo consacrò all’arte della scrittura per sempre. A Parigi, una volta arrivato nel 1928, senza più niente, diventò cenere da cui rinacque non più uomo come gli altri, ma artista, pronto e consapevole di aver sposato la scrittura e di non aver altra scelta che compiere il suo talento in essa. Per quindici anni, Henry Miller lottò nel tentativo disperato di far arrivare le sue opere all’America, suo primo bersaglio di calunnia, ma anche suo paese natale che lo sconfessava e lo tradiva ogni volta che lo censurava.

Come sottolinea Arthur Hoyle nella straordinaria biografia intitolata Henry Miller, per sopravvivere fu costretto per un periodo a scrivere su commisione racconti pornografici: «Gli venne attribuita una terza opera erotica, Opus pistorum (scritto nel 1941 ma pubblicato postumo nel 1983), nonostante ne avesse negato la paternità. A Miller non piaceva scrivere di pornografia: quando si trattava di descrivere i comportamenti sessuali non era mai letterale e tendeva con umorismo all’assurdità e al sublime». Il suo rigetto per la pornografia fu talmente forte che rifiutò ogni altra richiesta e sopravvisse, oltre che con l’aiuto economico della sua amante e amica Anaïs Nin, con le prime royalities che arrivavano dalle pubblicazioni delle sue opere a Parigi e con la vendita dei suoi acquerelli. All’età di cinquant’anni, Miller non aveva ancora trovato una dimora, e non la cercava: con l’arrivo della guerra, dovette dire addio ai dieci anni parigini, dove grazie all’amico Alfred Perlès e Anaïs Nin, venne riconosciuto e stimolato a continuare la sua lotta e la sua arte.

Dopo un viaggio in Grecia che gli permise di approfondire il suo anarchismo individualista (grazie anche alle letture su Emma Goldman) dichiarato già in Tropico del Cancro come un «vanto di poter dire che sono disumano, che non appartengo agli uomini e ai governi, che non ho nulla a che fare con i crediti e i principi. Non ho nulla a che fare con la cigolante macchina dell’umanità – io appartengo alla terra!» e di completare, se così si può dire, la sua visione della vita dove solo l’arte è il riscatto ultimo per convertire l’uomo alla consapevolezza e alla ricerca di sé (descritto nell’opera Il colosso di Marussi, 1941), Henry Miller fu costretto a rientrare negli Stati Uniti e ad affrontare, inevitabilmente, tutti i fantasmi abbandonati in nome della sua rinascita che trascese l’intelletto. Rivedere il conformismo di sua madre e la malattia (cancro) di suo padre lo indignarono, ma anche lo invasero di senso di colpa per essersene andato. Per un breve periodo, portò dei soldi a suo padre per comprare le medicine che la madre invece spendeva per un nuovo frigorifero tanto elogiato dalle pubblicità americane, mentre insinuava l’incapacità di suo figlio nel trovarsi un lavoro “come si deve”. Ma tutto questo non poté durare a lungo e soprattutto non cambiò la coscienza e la missione di Miller. Si rimise in viaggio attraversando gli Stati Uniti, dove intanto era stata ampiamente recensita la raccolta dei suoi scritti sotto il nome The Cosmological Eye (1939), rendendolo ufficialmente la voce fuori dal coro che l’America stava aspettando. Ma a Miller non bastava, voleva che Tropico del Cancro e tutte le opere create a Parigi, venissero ascoltate dalla sua terra. Per farlo rimase coerente alla sua missione: visse in povertà, continuò a scrivere senza dimore fisse e senza certezza di cibo quotidiano, ma pronto e grato verso le moltissime persone che gli proposero sempre ospitalità in tutto il Paese; nonostante le difficoltà e l’età avanzata, continuò a coltivare la sua esplosione di gioia e desiderio per la vita come il “poeta-clown” baudleriano, riscontrabile nel racconto Il sorriso ai piedi della scala (1958), unica opera scritta in terza persona dove «Il clown è un poeta in azione. È lui stesso la storia che interpreta. E la storia è sempre uguale: adorazione, devozione, crocifissione. Una crocifissione in rosa». Per riuscire a esorcizzare il suo disgusto per l’America («Vedo nell’America l’origine dei disastri. Vedo l’America come una nera maledizione sulla faccia della terra» Primavera nera, 1936), partorì la sua opera più densa, che terminò a Big Sur in California dove si stabilì fino alla sua morte, dal titolo Crocifissione in rosa: una trilogia che vede inclusi Sexus, Plexus e Nexus, dove negli ultimi due libri le scene di sesso sono quasi del tutto inesistenti. È proprio con Sexus che Miller riuscì a elevare la sua scrittura in filosofia e diventò una voce condivisa e richiesta da un numero sempre maggiore di persone: «La grande felicità dell’artista consiste nel divenire consapevole di un più alto ordine di cose, nel riconoscere, mediante la manipolazione coattiva e spontanea dei propri impulsi, la somiglianza tra la creazione umana e quella che ha nome creazione divina». (Sexus, 1949)

Solo nel 1967, la casa editrice Feltrinelli pubblicò Tropico del Cancro grazie alla traduzione dello scrittore Luciano Bianciardi, consegnando finalmente anche all’Italia l’audacia di una voce lirica e sincera come solo Henry Miller ha saputo far udire. Seppur in età ormai avanzata, Henry Miller vide realizzato il sogno di una vita spesa in nome della scrittura, della verità e del risveglio delle coscienze per convertire un mondo fatto di «gente non ancora nata, mostri evasi dall’utero prima della loro ora» (Parigi-New York andata e ritorno, 1935) in ascolto degli ultimi, i reietti che Miller però non incluse mai in una visione che ne presupponesse la redenzione: «Ogni parola che metto giù ora deve essere una freccia che va dritta al bersaglio. Una freccia avvelenata. Voglio ammazzare libri, scrittori, editori, lettori. Scrivere per il pubblico, per me non significa niente. Quel che mi piacerebbe, sarebbe scrivere per i pazzi… o per gli angeli». (da un estratto della copertina Una tortura deliziosa, a cura di Minimum fax).

Come può, dunque, un artista così ricco di profezia e coraggio essere ridotto solo alla svilente e inadeguata letteratura erotica? Non sarebbe più opportuno riscoprirlo e riproporlo come lettura risanatrice, soprattutto nella nostra contemporaneità, così distratta e carente nella consapevolezza dell’arte e della sua funzione primaria per la nostra crescita esistenziale?