Kolja Blacher Quintett

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Per la Società dei Concerti, con musiche di Ernest Chausson e Johannes Brahms

di Luigi Capaldi

 

Di solito le migliori esecuzioni di musica da camera si ascoltano da formazioni consolidate, che da anni suonano insieme, piuttosto che da grandi virtuosi che si uniscono per pochi concerti. L’esibizione del Kolja Blacher Quintett del 6 marzo scorso al Teatro Verdi di Trieste per la Società dei Concerti, stupefacente per coesione, omogeneità delle voci e coerenza dello stile, è una luminosa eccezione. Blacher (solista al fianco delle più prestigiose orchestre del mondo, oltre che affermato direttore, con all’attivo una vasta produzione discografica, un repertorio che spazia dal Settecento alla musica contemporanea e docente all’Accademia Eisler di Berlino) ha riunito per una manciata di concerti tre membri dei Berliner (Christoph Streuli e Christopf von der Nahmer ai violini e Kyoungmin Park alla viola), Claudio Bohorquez, suo collega alla Eisler al violoncello e, solo per l’esibizione triestina, il pianista di origine turca Özgür Aydan, anche loro tutti con consolidata attività concertistica. Hanno eseguito il Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op. 21 di Ernest Chausson (1855-1899) e il Quintetto in fa minore per pianoforte, due violini, viola e violoncello op.34 di Johannes Brahms, due composizioni di organico simile solo in apparenza, visto che, sebbene paragonabili per voci e volume di suono, la seconda rientra interamente nel genere da camera, mentre la prima (il titolo non è affatto velleitario) è un concerto per violino e due masse sonore, il quartetto d’archi e il pianoforte, che a tratti si uniscono in un’unica compagine di carattere sinfonico, a tratti si contrappongono separatamente al solista, come le famiglie degli strumenti di un’orchestra, e a tratti ricordano il seicentesco andamento del concerto grosso.

Ciò che accomuna le due opere è la loro tormentata genesi. Brahms inizialmente aveva pensato a un quintetto d’archi con due violoncelli. Lo completò fra il 1860 e il 1861 e lo sottopose a Clara Wieck Schumann, che fu entusiasta del contenuto musicale, ma non dell’organico: c’era bisogno almeno del pianoforte. Se ne convinse anche lui dopo analoghe critiche dell’amico Joseph Joachim. Lo riscrisse da capo come Sonata per due pianoforti (op. 34b), ma non con miglior fortuna. Alle altre voci critiche si aggiunse anche quella di Hermann Levi, il grande direttore wagneriano: quelle idee musicali richiedevano l’orchestra. Brahms accettò le critiche, ma non prese la strada della sala da concerto e ritornò invece al quintetto da camera, questa volta con il pianoforte. «Un capolavoro da camera come non se n’erano avuti dal 1828» (l’anno della morte e dell’ultimo quintetto di Schubert), esulta Levi. In effetti si tratta di una costruzione originalissima, sorretta dai due monumentali movimenti iniziale e finale (sorprendenti per varietà e abbondanza di idee, rigore e originalità dello sviluppo), fra i quali trovano posto un Andante, un poco adagio, espressivo e lirico, e uno Scherzo-Trio di ispirazione popolare. L’insieme della composizione non conserva alcuna traccia delle riscritture e pare un parto sereno.

Lucida, senza smagliature, aderente alla varietà dell’ispirazione e unitaria è parsa anche l’esecuzione del Kolja Blacher Quintett (in questo caso senza Christopf von der Nahmer): nessuna forzatura nelle dinamiche, stacco dei tempi preciso, amalgama sonoro perfetto. Un Brahms non cerebrale (come possono sembrare a volte il primo e l’ultimo tempo), ma vivo e alleggerito nelle parti più cupe.

Lunga e tortuosa fu anche la composizione del Concerto di Ernest Chausson, che richiese oltre tre anni dal 1889 al 1891, con continue battute d’arresto, ripensamenti e scoraggiamenti, come era tipico di questo compositore, oggi non molto eseguito, avvocato per volontà della famiglia borghese a cui apparteneva, ma musicista d’elezione, oltre che amante dell’arte e della letteratura. Fu allievo di Massenet e di César Frank, amico della folta schiera di musicisti che gravitavano a Parigi nell’ultimo quarto del XIX secolo come Fauré, Debussy, Albeniz e il più importante dei violinisti del tempo Eugène Ysaÿe. A quest’ultimo, che lo eseguì a Bruxelles il 26/2/1892, il Concert è dedicato. È un’opera originalissima, in cui trovano posto un alone di wagnerismo (che si avverte nella tendenza alla “melodia infinita”, utilizzata in particolare nel secondo tema del primo tempo e nell’insistito cromatismo del terzo movimento) e soprattutto la forma “ciclica” derivata da César Franck (sullo stile del Quintetto con pianoforte in fa minore), le armonie rarefatte di Fauré e la spontaneità melodica di Massenet. Il carattere dell’intera composizione si apprezza già nell’attacco del primo tempo, Decidè. Un frammento di tre sole note (re la mi) del piano, inizialmente assertivo, fortissimo, ma subito ripetuto attenuato sebbene insieme a viola e violoncello e poi ripreso “Calmo” dal quartetto e rielaborato fino all’“Animato” in cui fa la sua appassionata comparsa il violino. C’è insomma una gran varietà di “affetti” (per usare un’espressione assai in voga nel Seicento insieme a quella di Concert scelta dal compositore), che acquistano il carattere di stati d’animo mutevoli. Così, dal nucleo generativo del minuscolo motivo iniziale, si sviluppa una composizione mai cerebrale, ma che segue l’evoluzione dei sentimenti, per contrasto o per affinità, con tempi dilatati o incalzanti, con voci sussurrate o gridate e sempre mutevoli. Ancora dalla consuetudine con l’epoca barocca viene la più serena Siciliana, un ritmo che, rivisitato con lo spirito trepidante del compositore, si presta a incarnare i trasporti e i ripiegamenti malinconici di un animo inquieto. L’inquietudine cresce e diviene motivo dominante nel Grave che segue. L’esangue e lento procedere cromatico nel timbro profondo del piano e il flebile lamento del violino, cui si associano, desolati, gli archi del quartetto, producono col loro moto vario e al tempo stesso uniforme per l’intero movimento, un senso di profonda tristezza e a tratti di disperazione, che neppure sprazzi più sereni, di armonia instabile e vagante, attenuano. Dopo la desolazione viene però, nel finale très animé, un vitale dinamismo. Al guizzante tema iniziale si associano echi del materiale sonoro dei movimenti precedenti, rielaborati in forma ciclica. Si riannodano così i fili dell’intera composizione, ritornano i moti dell’animo inquieto che sembrano infine trovare un respiro quasi di lietezza.

L’intero concerto è una sorta di viaggio sentimentale (o meglio emozionale) che la formazione di Blacher compie senza che mai le tre fonti sonore (violino, quartetto e piano) risultino divise. Gli esecutori accentuano le increspature e i contrasti nel primo tempo, ma li stemperano nelle parti liriche; sono cristallini e malinconici nella Siciliana, desolati nel Grave, vitalistici, lirici e appassionati nel mutevole finale.

Il pubblico, numeroso e vario (vecchi abbonati, nuovi appassionati e scolaresche attente), ripagato con un bis della Siciliana, ha applaudito calorosamente.

 

 

Kolja Blacher