La cantina

| | |

di Giuseppe O. Longo

 

Quando Mallardi si trovò di fronte alla porticina imporrita e scrostata del sottoscala non fu più di tanto sorpreso. Benché non l’avesse mai vista prima, né sognata, gli parve giusto che si trovasse proprio lì e che silenziosamente l’invitasse ad aprirla. Una scala angusta e ripida scendeva verso una buia profondità, in cui tuttavia l’uomo riusciva a distinguere molti particolari. Vagava nell’aria un odore (di acido fenico, pensò d’istinto) che stranamente lo spingeva a scendere gli scalini di legno fino al pavimento di terra battuta. Scaffali colmi di libri muffiti si arrampicavano scheletrici sulle pareti di mattoni crepati e l’odore di fenolo si fece più intenso, tanto che Mallardi barcollò e dovette sorreggersi ai ritti della libreria sterminata. Nel pavimento si apriva una botola, chiusa da un coperchio munito di un anello di ferro. Sentì che doveva aprire quel coperchio, si chinò e con uno sforzo di cui non si credeva capace lo sollevò. Intravide un semaforo solitario, morto da tempo, che dondolava in uno spazio sghembo, come visto attraverso una finestra deforme, consumata. Anche lì una scala sembrava invitarlo a scendere verso una luminescenza lattiginosa, e stava infatti per infilarsi nella botola quando fu come risucchiato verso l’alto, e si ritrovò davanti alla porticina imporrita del sottoscala. L’abbiamo ripreso, disse una voce grave, che poi si perse in una cascatella di echi fino a spegnersi. Mallardi provò il desiderio di piangere, sentiva un dolore al fianco, come di un ferro che lo scavasse, poi si addormentò…

Si ritrovò in cantina, di fronte alla smisurata libreria. Ne erano caduti, forse per un terremoto segreto, migliaia di volumi che esalavano un insopportabile afrore di putrefazione. Da quella scompagine strisciavano sul piancito, come ulcere gassose, grosse lumache verdognole senza guscio, che si dirigevano verso la botola aperta. Lo sguardo dell’uomo si perse in una liquida profondità azzurrognola popolata di corpi mobili e contorti appartenenti a una razza protoumana, o disumana, più vecchia e più immutabile del tempo. Fantasmi indistinti, pelle e ossa, coperti di panni lisi e penduli, da spaventapasseri, che formavano una turba troppo esausta anche solo per parlare, sfiancati da quell’ossessivo andirivieni nell’acqua faticosa. Mallardi si sporse e allungò un braccio per immergerlo in quel mondo liquido e sfocato, e gli parve di udire dei suoni bizzarri e come soffocati da membrane mucillaginose, ogni tanto afferrava una parola il cui significato gli sfuggiva, cuore, pulsazione, adrenalina… e allora avvertiva una fitta terebrante che lo lasciava senza fiato per un certo tempo, finché la trafittura poco a poco si attenuava e gli consentiva di respirare e di recuperare una sorta di equilibrio. Ora le voci si susseguivano sempre più fitte e incalzanti, in preda a un’agitazione incontenibile, a un’acme parossistica che significava pericolo, minaccia, spasimo, angoscia, disperazione… Pian piano le voci discordi si unirono in una sorta di murmure affannato, come di qualcuno che preghi, o che implori un giudice dal quale si aspetta una sentenza di vita o di morte, che desideri abbandonare questo destino infame per navigare verso i Paesi d’Oltremare fioriti di magnolie e di oleandri… ma ecco di nuovo quella stilettata al fianco cui si accompagnava ora il gelo pungente di una bufera che si era scatenata dentro l’acqua della botola, ed egli cercava qualcosa con cui ripararsi nello sfarfallio dei fiocchi di neve fitti, sempre più fitti, che sembravano confondersi con quelle voci senza misericordia, fegato, polmoni, cuore, dieci milligrammi, scarica, e fu travolto da un colpo fortissimo nel petto, e poi un altro, e un altro ancora, mentre la tormenta rinforzava, il freddo lo paralizzava, l’acqua non era più tanto limpida, quei fantasmi di prima ballavano una sarabanda sempre più veloce, finché un urlo silenzioso invase quel liquido mondo che si rigava di bruno e di giallo e di violetto, e la voce disse l’abbiamo perso…