La libertà sbagliata

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L’esercizio della forza, e quindi l’uso delle armi, deve essere prerogativa esclusiva dello Stato, in ogni società che voglia definirsi civile.

Negli Stati Uniti d’America tale esercizio è concesso, dalla Costituzione, anche a qualsiasi privato.

Ne consegue, con un facile sillogismo, che gli Stati Uniti d’America non possono definirsi una società civile.

Nonostante il determinante contributo alla sconfitta dei fascismi europei nel secondo conflitto mondiale, nonostante il duro confronto vigorosamente sostenuto contro il totalitarismo sovietico durante la guerra fredda, il Secondo emendamento della Costituzione americana, la norma che dal 1791 consente ai cittadini di «possedere e portare armi», rende quantomeno dubbia la valutazione del livello di civiltà di un Paese che, all’indomani dell’ecatombe di bambini assassinati assieme alle loro maestre. ci fa pensare agli Stati Uniti come un Paese certamente vasto, ma impropriamente definibile grande.

Senza alcun antiamericanismo preconcetto, la strage degli innocenti perpetrata da un adolescente squilibrato in una scuola elementare di Uvalde, un piccolo centro texano prossimo al confine col Messico, sollecita un dibattito e, soprattutto, decisioni politiche eluse da decenni dal Congresso degli Stati Uniti e che abbiamo invece il diritto, anche noi italiani, di attenderci dal maggiore alleato del nostro Paese.

C’è una lobby potente e danarosa, organizzata in un’associazione, la NRA, acronimo di National Rifle Association, che si batte dal 1871 a difesa dei produttori e dei detentori di armi e di quelli che ritiene essere diritti civili, ossia la tutela della libertà di armarsi, possedere e portare armi, anche da guerra. La NRA vanta cinque milioni di iscritti, dispone di un patrimonio di milioni di dollari e di congrue contribuzioni che le consentono di finanziare campagne elettorali di quanti, ossequienti ai principi ispiratori dell’associazione, si candidano per un posto di amministratore pubblico, di deputato al Congresso, di governatore o di presidente degli Stati Uniti, garantendone in molti casi l’elezione.

Le lacrime di coccodrillo unanimemente fluenti dopo episodi raccapriccianti come quello che ha stroncato le vite dei diciannove bambini e delle due maestre di Uvalde sono funzionali a una ricostruzione dell’esecrato delitto secondo la quale la responsabilità è tutta del disagio mentale, della malattia occulta che si manifesta improvvisamente, a colpi di fucile semiautomatico AR 15. Non è così: la responsabilità della strage si deve estendere dall’esecutore materiale a quanti favoriscono la diffusione di una cultura in base alla quale sarebbe lecito ed opportuno favorire la libera circolazione di armi da fuoco per uso personale. Non mi pare peregrina una affermazione di corresponsabilità che, partendo dalla NRA e transitando attraverso l’ex presidente Donald Trump, il governatore texano Greg Abbot, i rappresentanti del Congresso che garantiscono l’intangibilità del Secondo emendamento alla Costituzione, via via fino a quanti, negli Stati Uniti o altrove, affermano come un principio di libertà la salvaguardia del diritto di detenere e portare con sé armi da fuoco, il cui uso dovrebbe invece essere riservato alle forze dell’ordine, e anche per esse rigidamente regolamentato ad evitare qualsiasi abuso o uso improprio.

Anche al di fuori del continente americano, anche nel nostro Paese, esiste e prospera una strisciante accettazione della violenza privata come fattore di una malintesa libertà, che costituisce invece un indebito, criminale e intollerabile arbitrio, funzionale alla diffusione di una pseudocultura irrispettosa dei valori di solidarietà sociale e, in definitiva, di rispetto della vita.

Le recentissime sentenze della Corte suprema degli Stati Uniti che ribadiscono il diritto dei privati di detenere armi e, poche settimane più tardi, di negare il diritto all’interruzione della gravidanza appannano irrimediabilmente l’immagine di un Paese che si proclama paladino del Diritto, mentre invece è un esempio esecrabile di regressione verso una civiltà barbarica.