Un architetto triestino “fuori sede”

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Intervista a Luca Paschini, titolare di uno studio di architettura a Vienna e docente al Politecnico della capitale austriaca

di Gabriella Ziani

 

Ha scritto una lettera alla rubrica “Posta e risposta” di Francesco Merlo sulla Repubblica. Per dire che a una «nemesi storica», il fatto che a Vienna il palazzo del Principe von Metternich sia oggi prestigiosa sede dell’ambasciata d’Italia, si è aggiunta un’altra circostanza particolare: a restaurare quello storico edificio – compresi i furtivi passaggi sotterranei – è stato lui, Luca Paschini, architetto triestino «fuori sede» giustamente orgoglioso della «rivincita». Nato nel 1971, titolare dello Studio 3089 a Vienna, docente al Politecnico, è sempre assai attento alle questioni che agitano la città giuliana, in primo luogo il Porto Vecchio.

Architetto Paschini, molto simpatica la sua lettera a Repubblica. È fuori sede da molto, se ha studiato a Venezia, a Bath in Inghilterra, e a Vienna… Com’è andata?

Trieste ha due caratteri peculiari e profondi: è una città accomodante e al tempo stesso irrequieta. Da un lato il suo paesaggio meraviglioso fatto di mare e Carso ti accarezza e ti vizia, ma dall’altro la pressione dei suoi limiti di terra e di mare ti spingono sempre verso fuori. Nel 1990 andai a studiare architettura a Venezia, per approfondire una realtà diversa da quella giuliana, ed ebbi l’opportunità di incontrare grandi architetti come Gino Valle, Luciano Semerani, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Francesco Venezia, e la fortuna di confrontarmi con studiosi come Manfredo Tafuri, Roberto Masiero, Marco De Michelis e Francesco Dal Co. Da Venezia feci un anno di Erasmus in Inghilterra e poi decisi di chiudere il percorso di studi a Vienna, dove andai per fare la tesi con l´architetto Zaha Hadid, vincitrice del Pritzker Prize. Studiare nella Masterklasse dell’Angewandte di Vienna con Zaha Hadid fu un’esperienza indimenticabile e molto formativa.

Com’è stata la sua vita Trieste, finché ci è rimasto?

Ho vissuto in città sino all’inizio dell´università. I miei genitori sono nati e cresciuti a Trieste, dove si sono incontrati e sposati tutti i miei nonni, i quali avevano radici natie dalla Carnia all’Istria. Ho fatto tutte le scuole a Trieste sino a diplomarmi al Volta, la vecchia Kaiserlich und Königliche Staatsgewerbeschule. Crescere a Trieste è una fortuna: la città è estremamente ricca di cultura, e ha un diffuso atteggiamento di sobrietà che consente di focalizzarsi sulle cose importanti e di tralasciare vezzi modaioli o effimeri. Come crocevia di mare e di terra ha saputo filtrare le culture di transito e raccogliere diverse intensità da esse. Credo che il livello delle scuole superiori e dell’università sia molto alto e consenta a tutti di acquisire un’elevata preparazione, con livelli superiori alla media delle altre città italiane ed europee. Purtroppo nelle fasi successive alla formazione la città, per i suoi limiti strutturali, offre invece poche possibilità di eccellenza e molte persone sono spinte a cercare in altri luoghi spazi di sviluppo.

Perché ha scelto Architettura? Aveva già in mente la missione di responsabilità che poi ha esplicato in tante iniziative su sostenibilità, uso del territorio, estetica?

Architettura mi ha sin da subito affascinato perché è una disciplina che abbraccia diversi campi del sapere: ha un lato tecnico e scientifico determinante, ma fonda le sue radici nell’arte e nella filosofia. L´attenzione verso il territorio è nata quando ho capito che ogni edificio, anche il più piccolo, non deve essere considerato come un oggetto a sé stante, ma come una realtà radicata in un territorio e facente parte di una storia molto più ampia: la sostenibilità di un prodotto nasce nel suo rapporto con il territorio e con la sua storia.

Lei ha fondato il network no profit dei Giovani architetti, GiArch (con oltre 27 sezioni associate, da Torino a Catania, da Genova a Trieste). Che cosa contraddistingue le nuove generazioni dalle precedenti?

Dal 2000 c’è stato in Italia un ritrovato interesse degli architetti verso il costruito. Negli anni precedenti, a causa di un’università spesso chiusa in se stessa e con pochissimi contatti con il mondo del lavoro, si svilupparono dialoghi molto introversi e chiusi all’interno delle mura accademiche. La maggior parte dei docenti non aveva relazioni con il settore delle costruzioni e non costruiva nulla. Le nuove generazioni hanno imparato sul campo a lavorare assieme alle imprese, diventandone, in molti  casi, stimolo e motore di innovazione. Nel 2010 sentimmo la necessità di raccontare queste esperienze positive che avevano prodotto spazi bellissimi e di altissimo livello qualitativo. Con il GiArch realizzammo diverse iniziative tra cui la pubblicazione di due libri per la Utet e una grande mostra alla Triennale di Milano. Anche a Trieste al Museo Revoltella, in occasione della Festa dell’architettura, venne presentato questo lavoro durante un evento importante organizzato dagli architetti triestini Andrea Battistoni, Fabrizio Furlan, Elisa Fontanot, Lisa Lantier, Elisa Loganes, Andrea Marchesi e Alice Martinelli.

Che cosa è “brutto” in architettura? Anche certe produzioni di famosi “archistar” brillano per creatività, ma non appaiono “belle” a tutti.

Beh, ci vorrebbe un libro, o meglio un trattato di estetica per rispondere in maniera completa… Ci sono diverse categorie di valutazione oggettive, altre molto soggettive. Provo a sintetizzare in poche righe la mia posizione, con l’aiuto del semiologo francese Jean Baudrillard. Per Baudrillard si può valutare il valore di un oggetto analizzando quattro delle sue componenti: 1) il valore funzionale (soddisfa le tue esigenze?), 2) il valore economico (il costo è ragionevole per i tuoi standard/esigenze?), 3) il valore simbolico (ciò che rappresenta, per esempio una maglietta polo Ralph Lauren rappresenta un mondo e un insieme di valori diverso da quello illustrato in una maglietta degli Iron Maiden…), 4) il valore del segno (il valore estetico, ovvero la capacità dell’oggetto di trasmetterti un’emozione/empatia solo per le sue forme, materiali, colori, grafica ecc.).  A queste ne aggiungerei una quinta (non di Baudrillard): l’Embergy, o Embodied-Energy, ossia quanta energia consuma questo oggetto per la sua produzione/consegna/uso/smantellamento (ossia la sua impronta ecologica). È un approccio schematico, ma funziona bene per una prima lettura…  Per molti avvocati tenere sulla scrivania una penna Mont Blanc è una cosa molto bella, per un ambientalista scrivere con una penna sfera su manico in legno è molto meglio. Lo stesso vale per l’architettura, dipende come e cosa rappresenta, quanto costa, quanto consuma ecc. Poi, la valutazione sul brutto o sul bello dipende esclusivamente dai valori personali che ciascuno ha acquisito tramite la sua educazione e le sue esperienze.

Perché si è fermato a Vienna, e come si trova a insegnare al Politecnico?  

Vienna è una delle capitali mondiali dell’architettura: qui nascono i progetti e le teorie di Otto Wagner, di Josef Hoffmann, di Adolf Loos, ma è anche la città dei grandi gruppi Radicals degli anni Settanta come Coop Himmelblau, Haus Rucker e Co, e di Hans Hollein. La città a mio avviso ha un ottimo equilibrio tra storia/passato e innovazione/sperimentazione. Vienna ha tre scuole di architettura in tre università diverse: al Politecnico (TU Wien), all’Accademia di Belle Arti (Akademie) e alla Scuola di arti applicate (Angewandte): è un panorama molto variegato e vivace. Un contesto così ricco mi ha da subito affascinato e stimolato professionalmente. A Vienna si lavora anche molto bene, il personale è qualificato e le imprese hanno strutture professionali e ben organizzate.

Restaurare il sontuoso palazzo Metternich è stato un successo professionale. Quali interventi? E grazie a che cosa ha vinto il bando?

Lavorare su Palazzo Metternich significa avviare un dialogo con la storia, con la storia dell’Austria e dell’Italia ma soprattutto dell’Europa. Prinz Eugen Lothar von Metternich fu il fautore del Congresso di Vienna, nel quale si decise l’assetto degli Stati europei, in buona parte ancor oggi attuali. Le stanze del palazzo sono davvero speciali e piene di storia: basti pensare allo studio di Metternich, tutto rivestito in legno d’ebano pregiato, regalatogli dal re del Brasile, o ai rivestimenti pittorici della Sala delle battaglie. Il lavoro lo acquisimmo grazie alla lungimiranza dell’ambasciatore Marrapodi che ci selezionò tra alcuni studi di restauro locali. L´ambasciatore colse probabilmente la nostra particolare attenzione verso il valore della storia e il nostro interesse a mantenere i segni del passato. Sul palazzo abbiamo lavorato per lotti. Purtroppo a causa di budget sempre molto limitati abbiamo fatto interventi su parte delle facciate, dell’androne di ingresso, della sala delle Ghirlande ecc. Alcuni interventi sull’accessibilità e l´adeguamento funzionale di spazi interni sono ancora in fase di pianificazione e sviluppo.

Ha lavorato anche nel passaggio segreto, che Metternich pare avesse predisposto per raggiungere la sua amante… Ce lo descrive?

Durante i lavori di restauro trovammo ancora intatto l’ingresso a un tunnel sotterraneo che collegava la residenza del principe a Palazzo Sternberg, dimora della sua amante. Le vie di fuga sono la rappresentazione dell’impossibilità della stabilità assoluta della vita. Chi le prepara sa che prima o poi dovrà avere un’uscita secondaria che gli consenta di svincolarsi dalle trappole che si è creato o che la società gli ha imposto. Un tema molto interessante, non solo dal punto di vista architettonico. Vienna è una città piena di passaggi sotterranei, molti conosciuti, molti ancora segreti. Orson Welles ne Il terzo uomo ne ha mostrato la ricchezza e le dimensioni. Metternich nel suo palazzo aveva diversi percorsi alternativi e un tunnel di circa 200 metri che lo portava dalla “Favorita”. Ora ne restano solo pochi metri: diversi edifici per abitazioni sono stati costruiti sopra questo antico passaggio, dopo che il principe dovette vendere i suoi poderi a causa delle difficoltà finanziarie in cui si trovò alla fine della sua carriera.

Tra le sue realizzazioni a Vienna c’è lo showroom Stroilistone. Non è un progetto davvero ardito? Pavimento che diventa parete.

È uno dei progetti di cui sono più soddisfatto: è un ambiente diverso dall´ordinario, e presenta una dinamica spaziale unica. Diversi anni fa un cliente italiano ci chiese di realizzare un progetto di interni per uno spazio nel primo distretto ove presentare e vendere pietre naturali, graniti, e marmi italiani. L’idea nasce dal tentativo di trovare un sistema per esporre il prodotto nel modo migliore possibile e al contempo di mostrare quanto con le attuali tecnologie contemporanee si possa oggi fare. Notammo che i pavimenti dei locali sono di norma coperti e nascosti da diversi oggetti: tavoli, scaffali, armadi, tappeti e divani limitano la percezione della superficie di calpestio. Ipotizzammo allora un approccio up-side-down, ossia di esporre i prodotti del cliente sulla superficie del soffitto, lasciata completamente libera collocando gli elementi di illuminazione solo a parete. Da qui ci venne poi in mente di collegare i due piani orizzontali con un elemento plastico a geometria complessa per illustrare le capacità tecniche e le innovazioni più avanzate. La grande onda in pietra naturale di ardesia nasce così da un esigenza funzionale prima di tutto.

Ma, tecnicamente, come ci siete riusciti?

Per definire la forma, per gestire la complessità delle curve e controcurve e per produrre tutti i disegni esecutivi abbiamo utilizzato e integrato ben tre software diversi. I pezzi di pietra sono stati poi tagliati con una fresa direttamente comandata dal computer. Solo così è stato possibile avere sotto controllo la forma e i costi dei 747 elementi che compongono l’oggetto.

Il progetto è stato molto apprezzato, sia dalla critica specialistica su pubblicazioni nazionali e internazionali, sia dai non addetti ai lavori. La soddisfazione più bella è stata vedere le persone apprezzare la fisicità dell´opera, che è molto tattile, mette in risalto la materialità della pietra naturale: toccano la curva, ci si siedono sopra…

Su che cosa in particolare impegna ora i suoi studenti al Politecnico di Vienna?

Quest’anno ho svolto il corso su un tema molto interessante: come sviluppare la città in verticale. Una città più densa e compatta è sinonimo di una città più sostenibile.

Nel 2016, assieme a un architetto svizzero, lei fece realizzare agli studenti dei progetti che proponevano soluzioni per il Porto Vecchio di Trieste, esposti a Palazzo Gopcevich l’anno successivo. Qual era l’idea-guida, che cosa farebbe se potesse progettarlo in libertà?

Negli anni scorsi si sono realizzati alcuni interventi nel Porto Vecchio e di recente si sono avviati alcuni nuovi progetti: sono però atti singoli, manca un piano complessivo di sviluppo, e non intendo un piano infrastrutturale o dei trasporti, ma un piano che abbia una visione di cosa potrebbe essere il Porto Vecchio tra vent’anni e di conseguenza la città. Con gli studenti del master in Progettazione della città dell’Istituto di urbanistica lavorammo per definire alcune proposte che potessero portare nuove attività e funzioni e quindi nuove risorse a Trieste da qui a vent´anni. Per riempire e far funzionare bene un’area così grande occorre attrarre da fuori molte risorse e molte nuove imprese e persone. Ma per farlo ci vuole un piano strategico generale, anche per consentire agli investitori istituzionali di programmare significativi investimenti a lungo tempo.

Piazza Vittorio Veneto, ristrutturata da Boris Podrecca: non piace. A lei sì? E piazza Goldoni chiusa da strutture in cemento da cui scendono rivoli d’acqua?

A Trieste in centro città manca il verde. Ogni occasione per piantare un albero dovrebbe essere presa. Tra i progetti che presentammo nel 2017 ci fu l’idea di realizzare un lungo Parco lineare in Porto Vecchio per dare un polmone verde agli abitanti del centro. La proposta è stata ripresa dall’amministrazione che in parte la sta realizzando con il progetto dello studio Land di Andreas Kipar. Ma non bisogna limitarsi a delle aiuole, bisogna realizzare un ambiente vivo che vegeta e forma una macchia e un microclima, integrando con un progetto unitario complessivo anche le aree limitrofe e magari gli edifici: il nuovo asse di via Trento e di piazza Libertà, e gli spazi delle Rive.

Lei sa che è in progetto una (contestatissima) ovovia dal Porto vecchio a Opicina. Il sindaco ha interpellato Massimiliano Fuksas per il disegno di stazioni e cabine. Per un collegamento cosiddetto sostenibile è sostenibile eliminare tutto un bosco secondo lei? Fuksas promette di ricreare il bosco al Molo IV…

Anche questo rischia di essere un frammento inutile. Inutile sia per risolvere il problema dei collegamenti e del trasporto pubblico, sia per dotare la città di una nuova attrazione turistica. La prima funivia fu realizzata nel 1908, e da allora ne sono state costruite centinaia nel mondo. Non credo che il progetto sia un’innovazione tale da attrarre masse di turisti a Trieste per fare un giro sull’ovovia. Il progetto di Fuksas mi sembra poi veramente mediocre: uno studente del terzo anno non passerebbe un mio esame con un oggetto così banale e soprattutto già visto.

Lei come cambierebbe la mobilità?

A Linz, la scorsa estate, Leonard, un bambino di otto anni, e sua madre Nikola sono atterrati nella piazza principale della città con un veicolo Drone per il trasporto di persone a guida automatica (ossia senza pilota). È stato un volo di presentazione di un programma avviato già da diversi anni in Austria, che prevede di attivare sistemi di volo automatico con droni per il trasporto di cose e persone nei prossimi due anni. Sono questi, a mio avviso, i programmi innovativi che portano avanti lo sviluppo vero di una comunità. Un sistema di tram elettrici per il trasporto di persone e un sistema di trasporto con droni di beni e prodotti (e perché no, persone) renderebbero migliore la vita in città.

La sua casa preferita?

Il progetto di una villa che stiamo facendo a Forte dei Marmi in Versilia: uno spazio fluido senza soluzione di continuità, aperto e connesso al giardino circostante per raccogliere i profumi dei pini e del mare.

 

 

Luca Paschini