La voce delle cose e altre storie

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Un volume di racconti di Gianluca Cinelli

di Fulvio Senardi

 

Il genere fantastico non è mai stato particolarmente caro agli scrittori italiani. Con pochi e circoscritti scossoni (il romanzo post-moderno di fine secolo, la breve stagione dei “cannibali”) trionfano forme di realismo, adeguate a quella “rispettabilità ben pensante” (Calvino, introduzione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno) di un Paese eternamente “moderato”, che si crogiola nei suoi pregiudizi e santifica le sue nevrosi.

Esiste tuttavia una linea Bontempelli – Buzzati, minoritaria quanto suggestiva, a ricordarci come siano consunti (e insieme spensieratamente fruibili) intrecci del tipo “il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise [ecc. ecc.]” (qui il Pirandello del Fu Mattia Pascal) – con gli opportuni aggiornamenti, è ovvio, sul piano sociologico (l’Italia non è più un Paese di conti, se mai lo è stato), tecnologico, sentimentale (o meglio, sessuale). Virandoli magari, con la garanzia di brividi stereotipati, verso il comodo alveo della narrativa di genere, gialla, nera o rosa. E non si parla dell’aspetto stilistico, che non può prescindere dai trionfanti modelli di comunicazione povera e semplificata che armano la penna a linguisti prestati alle terze pagine e fanno la croce di chi corregge compiti nelle scuole (una scrittura modellata sugli sms ha determinato, per un esempio ben noto, la fortuna di Federico Moccia, il caso letterario del primo decennio del nostro millennio). È proprio Buzzati che viene in mente leggendo i racconti della Voce delle cose e altre storie (pp. 113, edizioni Nerosubianco, Cuneo, Euro 10) di Gianluca Cinelli.

Anche questo scrittore ama evocare atmosfere di onirismo e inquietudine avvalendosi di una prosa limpida e scorrevole, caratteri salienti, come sappiamo, dello stile di Buzzati: «io – aveva confessato – raccontando una cosa di carattere fantastico, devo cercare al massimo di renderla plausibile, avvicinandola più che sia possibile, proprio alla cronaca». Se differenza vi è, oltre alla qualità del “prodotto” (qui Cinelli, che peraltro è assai giovane e crescerà ancora come scrittore, non avrà problemi a darmi ragione: il confronto è con uno dei Grandi del Novecento), sta nel fatto che la veste dei racconti di Buzzati è appunto quella di cronache di vita comune, nelle nostre città, fra le nostre strade, nei più consueti luoghi della vita di un’esperienza normale dell’uomo di oggi (Milano!). È qui che la sbavatura, la dissonanza, l’assurdo, l’elemento surreale cioè che beffa le attese e produce, come un corto circuito del senso comune, un alto quoziente di inquietudine, suscita echi lunghi e coinvolgenti. Il mondo di Cinelli è invece fin da subito allontanato dalla più ovvia normalità esperienziale: le ambientazioni sono in genere nell’aperto della natura, sui pendii di colline fittamente e cupamente boschive, in luoghi che già presentono l’epifania dell’inatteso, la manifestazione di qualche anomalia: un’astrazione di realtà, insomma, piuttosto che la realtà stessa. Si scivola insomma nel fiabesco (ma senza cadere, va detto con forza, nell’arbitrio del fantasy). Buzzati insieme ai fratelli Grimm? Certo sì, nel senso proposto da Bettelheim, che vede nella fiaba la trascrizione dei più ossessivi fantasmi psico-antropologici del mondo interiore. No invece per quanto riguarda l’immaginario romantico e neo-gotico che popola di personaggi non-umani, sarebbero oggi grotteschi, le fiabe dei tedeschi. Peraltro Cinelli di solito predilige conclusioni rassicuranti, ai limiti dell’happy end, e il perturbante viene così riassorbito in una prospettiva più vicina alla percezione normale, e certo meno straziante, di provvisorio disagio psichico. Quel misterioso turbamento che aduggia le città dell’uomo – Buzzati scriveva, nel Lupo, di una impalpabile inquietudine che «nelle ore alte della notte striscia lungo la tromba delle scale» – trascrizione in fondo di una consapevolezza fondamentale e rimossa di fragilità e transitorietà, prende in Cinelli assai spesso la forma di un’esperienza del male accidentale e revocabile. Che ben sposa, del resto, un’esigenza di denuncia e comprensione nutrite dello spirito di un umanesimo moderno che respira la pietas, come nel racconto più convincente e coraggioso, perché dà voce a un colpevole silenzio della nostra cosiddetta “società civile” (Il sergente e il figlio d’Africa: la storia di un reduce delle cosiddette “missioni di pace”, di cui da noi si tace perché l’Italia, secondo Costituzione, «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»). Dove le mezzetinte allenate sul mistero appaiono lo strumento più adatto per raccontare le penombre cangianti di uno psichismo minato dalla nevrosi di guerra, con un sapore di verità, in questo caso, che forse mostra la strada su cui dovrebbe indirizzarsi con concentrazione più decisa un talento di scrittore già ben oltre il dilettantismo, ma non ancora padrone, nel suo ricercare curioso, di una poetica insieme solida e articolata.

 

 

Copertina:

Gianluca Cinelli

La voce delle cose e altre storie

Nerosubianco, Cuneo 2017

  1. 113, Euro 10.