Poesia, musica, cinema: Hopper!

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I poeti d’oltre oceano – hanno la lingua sciolta,

se ne vanno con le mani – affondate nelle tasche

in giro per le strade – come vagabondi

monologanti di tutto – il variopinto che gli passa

per la testa, specie – di donne, di tradimenti,

di dialoghi annegati – nelle luci bluastre

di caffetterie-spelonche, – spengono, accendono

sigarette e buttano indietro – sulla nuca cappelli

malconci, in tasca – il mozzicone di matita

se gli prende la voglia – di un verso o una bestemmia,

ai poeti d’oltre oceano – la pelle sa di un misto

di whisky e di frontiera, – quando gli stringi la mano

gliela senti callosa, – mano da minatore,

sorridono celestiali – “scavo dentro nel cuore

del mio duro paese”.

 

Sono versi, inediti, di Claudio Grisancich, dedicati al cantante Leonard Cohen e scritti pensando a Edward Hopper, ai suoi quadri che sprigionano malinconia e solitudine.

A Bologna si può visitare fino al 24 luglio un’esposizione dedicata al pittore americano e devo dire che girando per le stanze di palazzo Fava si conferma l’impressione di “variopinto che gli passa per la testa, specie di donne, di tradimenti, di dialoghi annegati”, di “whisky e di frontiera”, come nei versi di Grisancich, o come in tanti film con Humprey Bogart, Marlon Brando, Cary Grant… e la visita sarebbe perfetta con la voce calda e appassionata di Leonard Cohen in sottofondo.

Il quadro scelto per il manifesto è Second story sunlight, dipinto nel 1960, il più tardo dell’intera mostra. La sua originalità sta nell’ambivalenza tra il senso di mistero suggerito dal bosco contrapposto alla tranquillità delle facciate delle due case gemelle, l’irrequietezza che si legge nella posizione sfrontata della giovane contro la calma serafica della donna anziana. E chi, in quella ragazza bionda, non ci vedrebbe un’inquieta Grace Kelly o un’altera Greta Garbo?

Altra opera notevole è South Carolina Morning, dove l’orizzonte piatto ricorda la moda dei pittori rurali e il voyerismo si sente anche in un ambiente esterno, con quella figura di donna afroamericana (a quanto pare, l’unico personaggio di pelle nera nella pittura di Hopper) così mollemente poggiata allo stipite della porta, le braccia incrociate con fare rassegnato, contrastante con l’eleganza del vestito rosso, il largo cappello e gli orecchini d’oro. Verrebbe da chiamarla Suzanne, come la protagonista eccentrica di una famosa canzone di Cohen, verrebbe da cercare nella memoria una scena di un film con, non fosse per la pelle, una nostalgica Ava Gardner.

I rimandi al cinema non sono certo pochi casi fortuiti: data la sua sensibilità spiccatamente fotografica, Hopper è uno dei pittori più importanti del realismo americano, con la sua nuova automobile e la moglie aveva girato per gli Stati Uniti fermando nelle sue tele tutti quegli stereotipi che si possono ritrovare in cinema e letteratura (soprattutto Chandler). Alfred Hitchcock ha sostenuto che il motel maledetto di Psycho è nato pensando alle case solitarie di Hopper (House by the railroad), mentre nel catalogo alla mostra, curato da Barbara Haskell in collaborazione con Luca Beatrice, proprio per far vedere lo stretto legame con Holliwood c’è un’immagine tratta da un film di Wim Wenders: non fosse per la didascalia, quell’ambientazione semplice, con un paio di edifici anonimi, uno dei quali illuminato dal sole, con un uomo che insegue a passo veloce una donna lungo una strada deserta, ecco, si potrebbe pensare “Bello questo quadro di Hopper!” Per non parlare dei distributori di benzina che hanno influenzato moltissimi film: per il pittore erano gli ultimi avamposti umani prima della natura che regnava appena al di là della strada. Non si può non osservare una pompa di benzina di Hooper senza immaginarsi di veder schizzar via Humphrey Bogart su una Cadillac. Altro suo tema comune sono i fari, e non a caso, nella copertina che gli dedicò il Times, nella foto che lo ritraeva si distingueva, sullo sfondo, proprio un faro. Sono i suoi grattacieli (Hopper non disegna mai grandi palazzi, solo case semplici di un’America meno vistosa), sono insieme un qualcosa di introspettivo e di aperto al futuro e davvero non ci starebbe male, lì accanto, in Light at Two Lights, la figura di Gregory Peck in divisa da marinaio. E poi le stazioni, i passaggi a livello (Blynman Bridge, oppure Railroad crossing), tipici anch’essi di tanta America vista sul grande schermo; e quadri raffiguranti case sperdute tra campi, come House on Pamet river, con una vecchia moto parcheggiata fuori da una grande casa bianca: da un momento all’altro potrebbe uscirne James Dean con un giubbotto di pelle per poi allontanarsi a cavallo della harley in una nuvola di polvere. È in opere come queste che hanno senso i versi del poeta triestino: “se ne vanno con le mani affondate nelle tasche, in giro per le strade, come vagabondi monologanti di tutto”, “spengono, accendono sigarette e buttano indietro sulla nuca cappelli malconci”, “quando gli stringi la mano gliela senti callosa, mano da minatore”.

Ma la maggior parte dell’esposizione bolognese è incentrata sui primi lavori e sugli anni parigini, quando ancora Hopper non era diventato il cantore della sua America. Si percepiscono, però, alcuni di quelle che saranno le sue caratteristiche: gli ambienti semplici, geometrici, somiglianti a istantanee, che si rifanno alla sua idea di impressionismo, alle “prime impressioni”. Stairway at 48 rue de Lille è significativo: ambiente chiuso, solitario, trasmette emozioni intime, introspezione, solitudine, nostalgia, irrequietezza. In Self portrait l’autore si ritrae quasi alla maniera dell’800: lo sfondo oscuro, la posizione eretta, seria, e la testa piegata di lato, niente fronzoli sulla sua persona o nell’ambiente circostante. Ma guarda direttamente lo spettatore, lo fissa negli occhi come ci fosse una camera da presa, come a preannunciare quell’amore per il cinema che gli porterà fama. Oltre ai quadri si possono ammirare numerosi disegni, di solito a matita e pastelli, e incisioni, in cui lo si scopre ricco di particolari. I disegni erano spesso propedeutici ai suoi dipinti, anche se gli acquerelli pare siano stati tutti dipinti dal vero, all’aperto, senza preparazione.

Tra essi non possono mancare gli studi per Gas, c’è una delle rare opere su commissione, Helen Hayes’s House, e il disegno preparatorio a Girlie Show, con la moglie Josephine come protagonista. All’epoca di quel lavoro, Josephine non era più giovanissima e Hopper, con ironia, l’aveva volutamente resa più seducente e più sfrontata ma anche, inevitabilmente, più patetica. A vederlo, tornano in mente i versi di Grisancich dedicati a Cohen “scavo dentro nel cuore del mio duro paese”, scavo nelle donne; e di conseguenza la sua canzone Light as the breeze, dove la protagonista balla con grazia e con provocazione mentre lui è insieme attratto e disgustato, e vorrebbe avvicinarsi e toccarla e baciarla ma si trattiene, ma lei avanza lieve come la brezza.

Visibili anche opere come Summer interior e New York interior, che uniscono in una mescolanza indissolubile erotismo e sciatteria, voyerismo e solitudine, abbandono e libertà. Sono, appunto, scene d’interni, tanto care al pittore, con donne sole come protagoniste: seminude, col letto sfatto, a suggerire un rapporto appena concluso, o indaffarate a cucirsi l’abito, come per uno spettacolo in procinto di iniziare. Sono donne che parlano di vita povera e difficile ma libera, di carattere, oltre che di malinconia. Ancora una volta, torna in mente Cohen con la sua Dance me to the end of love: “Fammi ballare oltre le coperte che i nostri baci hanno consunto, alza una tenda a proteggerci anche se ogni filo è spezzato, fammi ballare fin dove finisce l’amore” (traduzione libera). Gli interni, anche di uffici (Study for Office at Night, Study for City Sunlight), non sono rari in Hopper, tanto che una volta si era sentito in dovere di giustificare questa sua mania per un’ambientazione piuttosto insolita a quei tempi ricordando come, a New York, in tanti viaggi sul treno sopraelevato, aveva potuto osservare cosa succedeva dentro tante case, o, per dirla alla Grisancich, “dentro il cuore del suo duro paese”. È l’America intima e turbata, quella solitaria che esprime debolezza e malinconia, indifesa tra quattro mura che sanno di solitudine, perché tutto, nei suoi quadri, persino i rimandi al cinema, alla musica, alla poesia, sa di sentimenti profondamente interiori, di vita privata.

 

di Anna Calonico

 

 

 

 

EDWARD HOPPER

Palazzo Fava – Palazzo delle Esposizioni Via Manzoni, 2 40121 Bologna

 

Dal 25 marzo al 24 luglio 2016

 

ORARI Lun – dom 10.00 – 20.00 (la biglietteria chiude un’ora prima)

BIGLIETTI Intero € 13,00 Ridotto € 11,00 Ridotto Gruppi € 11,00 (

prenotazione obbligatoria, min 15 max 25 persone) Scuole € 5,00

(prenotazione obbligatoria, min 15 max 25 persone)

DIRITTI DI PRENOTAZIONE E PREVENDITA Gruppi e Singoli € 1,50 Scolaresche € 1,00 per studente

 

Second Story Sunlight: 1960, olio su tela