Le quattro stagioni dell’amore

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Quattro poemetti di Roberta Pelachin

di Giuseppe O. Longo

 

 

Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan

(L’eterno femminino che ci eleva)

Goethe

 

Quattro poemetti sull’amore, ciascuno intitolato a una stagione, ciascuno segnato in esergo da una citazione da Femmes damnées, una delle poesie più intense de Les fleurs du mal di Charles Baudelaire, in cui si fa lacerante il dissidio tra la morale corrente e l’eroica dedizione a un ideale assoluto d’amore e di bellezza. Lo sguardo del poeta francese oscilla tra compatimento e ammirazione: le donne dannate, al contrario di coloro che vivono un’esperienza superficiale dell’amore, hanno il coraggio di trasgredire ogni limite e di andare fino nel fondo del corpo e dell’anima, alternandosi in loro il godimento e il rimorso in nome dell’endiadi amore e morte. La scelta di citare nel suo Passioni inquiete o dell’Amore un distico e quattro quartine di questa poesia di Baudelaire non è certo casuale: anche Roberta Pelachin, attraverso le sue protagoniste, si muove in un’ambivalenza lacerante tra il bisogno primario d’amore espresso dal mantra “amo dunque sono” da una parte e, dall’altra, lo sconforto, il senso di svuotamento che l’esercizio del sesso lascia in noi, un avvilimento che confina con il bisogno di espiazione (omne animal post coitum triste). Brama carnale e intima angoscia, legata quest’ultima all’acuta consapevolezza dell’inesorabile procedere del tempo (sed fugit interea, fugit irreparabile tempus) cui ogni atto d’amore invano si oppone.

Nel primo poemetto, Estate. Incede del Nilo la regina, sempre altrove, fiammeggiante di luce e di calore e trasudante esplicito erotismo, Cleopatra riconosce che desideri e passioni sono “sparsi come aliti di nulla” perché, con un richiamo al sonetto che apre il Canzoniere di Petrarca, “questo tempo vano / sconquassa ogni cosa inutilmente.” In un sussulto d’orgoglio la regina dichiara che non si piegherà ad essere di nessuno, nemmeno di Antonio: sarà solo di sé stessa. Con una sorta di allucinato fervore dichiara “della vita ho gustato / il succo ardente fino all’ultima goccia / con sapore pieno.” E, subito, l’inevitabile contrappunto: da una parte il godimento estremo consentito da quel meraviglioso strumento che è il corpo, dall’altra la consapevolezza del suo inevitabile decadimento: “sfugge e gocciola la beltà mia / ché il corpo già s’inceppa”. E ancora: “Solchi lievi, ora qua e là / sul corpo, della vecchiezza / segni, che nessun olio / né niveo latte saprà celare”. Come non pensare alle parole di Francesca a Dante: “Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice nella miseria”? E come non pensare alle Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés? In Roberta-Cleopatra la presa della razionalità sull’inconscio si allenta ed emerge la natura selvaggia, istintuale, creatrice della donna che scopre dentro di sé risorse tali da medicare ciò che si è guastato o è stato dagli altri guastato.

Cleopatra vorrebbe essere immortale, ma senza decadere: vorrebbe conservarsi sana, bella, vigorosa per un tempo infinito, e questo è il desiderio di tante donne e tanti uomini che, abbandonando la tradizionale rassegnazione di fronte all’assiduo lavorio dei giorni, si ribellano, non vogliono invecchiare, non vogliono pensare alla senilità e tanto meno alla fine, in ciò dimostrando di usare in pieno del grande dono di Prometeo agli umani, l’oblio della morte. Siccome la biologia non consente l’immortalità, ecco che oggi molti ripiegano su un surrogato vagamente patetico e vivono come se per loro il tempo non passasse, mettendo in pratica ciò che dice Pascal: “Non avendo potuto guarire dalla morte, gli uomini, per vivere felici, hanno deciso di non pensarci più”. Oggi il benessere prolungato e accresciuto consente di non pensare all’età che avanza: si abita, con ostinazione eroica, in un eterno presente, il tempo si arresta e si vive da “amortali”, per usare il termine adottato da Catherine Mayer in Amortality. The Pleasures and Perils of Living Agelessly. Tuttavia la morte non si sconfigge solo perché non vi si pensa: il costante memento mori di un tempo è accantonato fino all’istante supremo in cui la morte si erge in tutta la sua inesorabilità davanti all’amortale divenuto d’un tratto mortale. Ma Cleopatra non aspetta il destino, e per sfuggire al laidume della vecchiaia propria e del suo amante (“Vizzi nel corpo solchi di rughe / e barba bianca, e il membro tuo / molle riposerà sul ventre gonfio”) deciderà di anticipare il fato dandosi la morte, unico modo per aprirsi all’“infinito / dei possibili tutti”. E a questo dramma umanissimo e appassionato assiste, maestoso nel suo fluire, il Nilo.

Non si possono analizzare minutamente questi ricchissimi poemetti, non basterebbe lo spazio. Dirò solo che a tratti i versi acquistano un sapore gnomico, sapienziale, senza mai essere sentenziosi: per esempio Roberta s’interroga e c’interroga sul senso. In Autunno. Ombre nel vespro salmastro: “La vita si fa / e si disfa a suo modo in un tempo dato. E io cerco, sempre cerco / quel punto impossibile, dove il senso / traspare, riappare e scompare”, parole che ricordano il Montale dei Limoni che, sotto l’aspetto ordinario delle cose, cerca una verità nascosta: “Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità.” Ma, a differenza del poeta ligure, Roberta Pelachin è sacerdotessa dell’amore e lo celebra in tutti i suoi aspetti, da quello carnale e orgasmico (“solo dal corpo incede l’amore”) a quello passionale e tenero e languoroso, a quello che s’identifica nel tutto della vita (“Tutto è vivo – vivo, e radioso / ché la vita è, finalmente, / nella sua essenza / più indicibile e arcana”), a quello delicato e reticente, quasi trobadorico (Amore, e Amore, Amore. / Dire vorrei, / e dire, e dire ancora, e mille volte. / Ma non posso, non più, non ora. / Non ancora.”) .

Una lingua ora fiammea e sulfurea, ora placata e delicatissima, che si vale di vocaboli ricercati e desueti, di un uso originale di certi verbi (“il navigante… / smarrisce e fuga alla deriva”) e di vere e proprie invenzioni di rara espressività (“rauca / latrati come Cerbero mostro”). Paesaggi marini, acque e rocce, scogli e flutti e fari solitari (si veda il terzo poemetto, Inverno. Chiaroscura la notte, Uomo di paglia) sono teatro al dramma di una donna ingannata (“Amore, tradimento, rabbia, / pena, odio rimorso, nostalgia / arruffano tempi laschi e bui”) che s’interroga (“In cosa son mancata – io? / Cosa non ho compreso, fatto?”) con le domande che sempre e da sempre dall’amore scaturiscono quando finisce o quando è tradito e si scopre doppio (“tu promettevi a me e all’altra / ché l’onor tuo ben saldo fosse”). Ma il dolore tramuta in poesia, in immagini delicate e forti, che fanno di questi poemetti un testo da leggere e rileggere.

Non posso non citare la chiusa dell’ultimo poemetto, Primavera. Adombran stelle al limitar dell’uscio, pervaso da una serenità raggiunta: la protagonista ha compiuto un viaggio iniziatico, che ricorda quello di Dante, al termine del quale “Riappare il firmamento / di mille e mille stelle che vibrano, / silenti e luminose” e poi “vele nel blu cobalto… comete, lunari filamenti… la bruma che intesse desideri”. E infine “Sbozzola un chiarore piano / di astri che lucciolano, qua e là, / e pulsano di carne senza pudore / e sogni immensi. / Riposa il petto, finalmente, / quieto a sospiri d’amore, che vibrano / sempre vivi, sempre inappagati, / sempre in cerca di stelle.” È il desiderio.

La cultura classica di Roberta Pelachin, laureata in Filosofia ma anche appassionata cultrice di Biologia (sua una bellissima Lettera a Charles Darwin, pubblicata dalle Edizioni dell’Università di Trieste nel 2010) traspare dai frequenti richiami mitologici che, lungi dall’appesantire il testo, gli conferiscono l’immutabilità araldica tipica di certi mosaici bizantini che si pongono fuori dal tempo, come fuori dal tempo è l’Amore.

 

 

 

Copertina:

 

 

Roberta Pelachin

Passioni inquiete o dell’Amore

La Vita Felice, Milano 2015

  1. 124, Euro 13,00