Le ragioni di Antigone

| | |

La figura di Loudovikos Skarpas, console greco a Trieste dal 1938 al 1940, in esito alle ricerche d’archivio di Silva Bon

di Anna Maria Vinci

 

Per gentile concessione dell’Editore, proponiamo qui la prefazione al volume Loudovikos Skarpas: il Consolato greco a Trieste negli anni della Shoah (1938 – 1940), recentemente pubblicato dall’Istituto Regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia.

 

 

Mai più

 

Silva Bon ci fa un altro dono, in linea con il suo costante impegno civile volto a scavare negli anfratti della società locale e nazionale per portare alla luce le storie di vita di coloro che, a causa delle leggi razziali fasciste, furono scaraventati fuori dalla comunità nazionale. Da ricercatrice di vaglia Silva Bon non si limita, tuttavia, ad allestire una galleria degli orrori: l’importante è, infatti, conoscere a fondo i meccanismi che permisero tale disumana scelta, perché solo così si possono definire tutti i tasselli di un quadro composito. Non sono solo le vittime ebraiche e nemmeno i volti ottusi dei carnefici ad occupare la prima fila, bensì tutto il groviglio di leggi, circolari, percorsi istituzionali che resero possibile un’operazione così vile.

Coloro che “obbedirono”, mostrando spesso uno zelo spropositato, si adeguarono alla gerarchia del comando, mettendo a tacere i principi superiori della coscienza, spesso forgiata sulla base di norme solidaristiche e pietistiche, di tipo religioso e non. Certo, la persecuzione degli ebrei si lega ad altre categorie di pensiero, e ai forti pregiudizi vigenti da secoli (sotto forma di antigiudaismo) in tutta l’Europa cristiana, ma – a mio parere – l’antisemitismo moderno che attecchisce al di fuori della Germania nazista, non è sufficiente a spiegare ogni atto vessatorio. Il conformismo cresciuto prepotentemente ai tempi della dittatura fascista rappresenta, infatti, un osservatorio importante da cui scorgere gli anni concitati e terribili che preparano la Shoah.

«Preferirei di no» la frase ripetuta ossessivamente dallo scrivano Bartleby, in un famoso racconto di Melville pubblicato nel 1853, indica un percorso opposto all’ossequio supino all’autorità. Nella narrazione di Melville è presente la fascinazione dell’assurdo, ma quella frase è diventata nel tempo un emblema per i pochi che hanno scelto una ribellione tenace ma di basso tono contro ordini impietosi, ammantati di regolare legittimità. Di certo, resta poi da capire il significato di definizioni come “basso tono” o “bassa intensità”, poiché si rischia di sottovalutare l’impegno coraggioso, di uomini e donne che antepongono (per rifarsi ad un celebre esempio) le ragioni di Antigone a quelle del re di Tebe, Creonte. Dettata da un senso profondo di giustizia, dalla compassione oppure da interessi di vario genere, la scelta di disobbedire a ordini non guidati dalla pietas verso i propri simili è pagata spesso duramente.

A tale proposito, la vicenda del console greco a Trieste, Loudovikos Skarpas, portata alla luce da Silva Bon dopo importanti e faticose ricerche d’archivio, accende una spia luminosa su comportamenti possibili in mezzo alla bufera delle leggi razziali fasciste. Il testo, ricco di una documentazione di prima mano, entra nel dettaglio del difficile percorso che, a soli quarant’anni, il console originario di Corfù intraprende per tentare di salvare gli ebrei ellenici colpiti dalle misure fasciste del 1938, siano essi appartenenti o meno alla Comunità greco – ortodossa, preoccupandosi inoltre degli ebrei stranieri non necessariamente di nazionalità greca. Skarpas si trova nell’occhio del ciclone, in una Trieste che sembra già pronta a individuare sia gli stranieri sia gli ebrei col censimento generale della popolazione del 1936 e che, col censimento del 28 agosto 1938, può quindi facilmente segnalare la presenza in città di circa 7000 ebrei. Tutto ciò mentre nella città/porto si riversano dal Centro – Europa moltissimi israeliti perseguitati, in cerca di un rifugio precario prima di un imbarco verso la Palestina o verso altri paesi d’Oltreoceano. Per ottenere vuoi il transito di ebrei, attraverso la Grecia, verso altre destinazioni, vuoi il rientro permanente di molti di essi nella loro terra d’origine, Skarpas ricorre a tutti i cavilli della diplomazia nei suoi rapporti di mediazione con l’Ambasciata generale di Grecia a Roma, con il Ministero degli Esteri italiano, e con quello di Atene. Le sue motivazioni sono spesso mirate ad attirare l’attenzione delle autorità elleniche sulle potenzialità economiche che gli ebrei in fuga possono mettere a frutto in Grecia, essendo spesso commercianti esperti e non privi di ricchezze. È evidente il suo senso di protezione verso i compatrioti corfioti, confluiti in gran numero nella Comunità ebraica di Trieste verso la fine dell’Ottocento, mantenendo in larga parte la cittadinanza greca: tutto ciò non sminuisce affatto il valore degli  interventi ostinati del console anche a favore di tutti gli altri. Il confronto con i funzionari greci di più alto livello è aspro e, nello stesso tempo, capace di suggerire vie traverse per superare gli ostacoli della rigidità di ottuse disposizioni. Il console Skarpas, nel rispondere alle sprezzanti ordinanze dell’Ambasciata greca in Italia, ricorre allo stesso principio di etnicità (e di razza) che l’ambasciatore Metaxas avanza per contrastare l’accoglienza dei fuggiaschi nella loro antica patria ellenica. Ha tuttavia l’ardire di rovesciarne i termini, ricordando le vicende di tutti quegli ebrei greci (molti dei quali rimasti a Trieste) che uscirono dalle loro terre “per motivi di sussistenza” e che, dimostrando poi forti legami con la patria d’origine, accettarono spesso di fare il servizio militare in Grecia, né mai fecero richiesta di essere cancellati dai registri della Comunità greca, con particolare riferimento a quella di Trieste.

Siamo nel marzo 1939, le leggi razziali sono in vigore in Italia, ma non vi sono provvedimenti antisemiti in Grecia. Nemmeno un mese dopo, l’Albania è invasa dall’Italia e di certo, nonostante la proclamata amicizia italo – greca, tutto ciò comporta qualche brivido per il governo e le istituzioni elleniche.

Forse sono le stesse parole dell’ambasciatore Metaxas a rivelare quanto quell’amicizia tra dittatori stia sul filo del rasoio di una rappresentazione nient’affatto inedita: quella dell’amico/nemico.

Alle insistenze di Skarpas, l’ambasciatore recita seccamente che «il Governo greco non desidera in questo momento che si crei un’ondata d’immigrazione di Israeliti in Grecia, anche se questi Israeliti siano, o siano mai stati cittadini greci”. […] Solo adesso, che, a causa delle recenti leggi razziali, essi rischiano di rimanere senza cittadinanza, chiedono la nostra protezione».

«In questo momento»: l’inciso fa riflettere, scrutando dietro le cortine del linguaggio diplomatico; in ogni caso, nei confronti dei molti ebrei sefarditi insediatisi nel tempo in Grecia (a Salonicco, in particolare) l’atteggiamento delle istituzioni di quel paese era stato spesso oscillante. Pur senza l’emanazione di leggi razziali, non vi erano mancate – dalla fine della Grande guerra – correnti di antisemitismo, che il governo centrale non era riuscito a comprimere.

«La barca è piena», fa intendere l’ambasciatore Metaxas, mentre il console di Trieste si adopera in ogni modo sia per aiutare gli ebrei in difficoltà economiche, sia per favorire le partenze dei profughi, sia intervenendo a proposito di casi singoli particolarmente a rischio e quindi degni di ogni attenzione. Protesta inoltre con forza contro la posizione del timoroso Presidente della Comunità greco – ortodossa di Trieste che si oppone alla conversione all’ortodossia degli ebrei, esercitando un potere non suo, bensì pertinente alle autorità ecclesiastiche: le conversioni degli israeliti alla fede cristiana sono, com’è noto, molto frequenti tra il 1938 e il 1939 in tutta Italia.

Skarpas sa scegliere comportamenti a volte astuti, a volte elusivi, altre volte puntigliosi, non perdendo mai di vista l’obiettivo principale: quello umanitario, mentre sa chiamare perfettamente con il proprio nome i responsabili delle tragedie cui sta assistendo. Una perla rara si potrebbe aggiungere. Certo è che in una delle ultime lettere che il console manda il 28 giugno 1940 al Regio Ministero greco per gli Affari esteri, esplode il suo disgusto e il suo dolore per responsabilità scansate dalle massime autorità del suo Paese. A Skarpas sembra impossibile, ad esempio, che si neghi il visto a quegli ebrei che, passando per la Grecia, unico varco ancora parzialmente aperto, intendano raggiungere gli Usa o l’America del Sud: i pretesti burocratici gli appaiono insussistenti e crudeli.

E per se stesso, ha poche cose da ribadire, a ridosso del suo allontanamento. Costretto, per obbedienza alle disposizioni superiori del suo Stato, a non accordare il visto consolare ai molti richiedenti, rileva che gli ebrei che si erano presentati inutilmente alla sua porta sarebbero stati certamente e in tempi brevi arrestati e rispediti in Germania «col noto risultato che equivale a una condanna a morte». «Mai più – aggiunge – [mi sia riservato] di assistere a scene di così tragica disperazione».

Nonostante tutto il suo coraggio, è un uomo solo in bilico tra obbedienza e rifiuto dell’assurdo. Tanti uomini insieme avrebbero forse fatto la differenza.

 

 

Silva Bon

Loudovikos Skarpas

Il Consolato greco a Trieste

negli anni della Shoah

(1938 – 1940)

IRSREC, Trieste 2020

  1. 120, euro 18,00