LUIGI VETTORI E MARIO MORETTI
Giancarlo Pauletto | Il Ponte rosso n. 103 | Maggio 2024
Luigi Vettori era nato nel 1913, morì sui monti della Grecia, nella disastrosa guerra di Mussolini.
Era il 1941, si spezzava un talento fuori del comune che si era già affermato, ma che naturalmente
attendeva di svilupparsi in tutte le sue potenzialità.
Nel 1975 fui incaricato dal Comune di Pordenone di curare, con le opere che erano state donate
dalla famiglia al Civico Museo Ricchieri, una mostra retrospettiva che potesse rimettere
pubblicamente in luce il talento dell’artista: il quale si rivelò subito ai miei occhi, appena vidi la
prima cosa che di lui rimaneva, un Cortile – dipinto a quindici anni – che dimostrava da un lato la
sua già sviluppata attenzione alla pittura di altri artisti, dall’altro, nella finezza degli accostamenti,
nella complessiva saporosità della superficie cromatica, e nella giustezza degli spazi, un
disposizione alla pittura ricca di promesse.
Promesse poi assolutamente mantenute, e qui bisogna citare almeno qualche altra opera, come ad
esempio la piccola, bellissima Natura morta con tazze, non datata, ma compiuta forse attorno ai
vent’anni, calata in un sommessa musica tonale, più guidiana, mi parve, che saettiana; poi il Ritratto
della madre, del 1935, campito in trattenuta solennità entro un arioso paesaggio domestico e
campagnolo, in una luce di quotidiana serenità; e ancora, almeno, la Donna in nero, di qualche anno
prima, elegante, assorta figura da cui sembra spirare un senso quasi stilnovistico della femminilità.
Si realizzò poi, nel novembre del 2014, sempre da parte del Comune di Pordenone, un’altra mostra,
costruita con ulteriori documenti ed ulteriori opere, giusto completamento della fisionomia di un
artista degno di alta considerazione.
«Il giorno 13.8.44 ho comperato una cassetta di colori a olio per 30 mezze minestre e 30 mezze
razioni di patate […]. Il sacrificio è stato notevole soprattutto perché sono deperito, ma la decisione
è venuta in quanto il sacrificio provocato dalla mancanza di mezzi di lavoro mi è più insopportabile
degli stimoli della fame».
Siamo al campo XB di Sandbostel, nei pressi di Bremervörde, al nord della Germania, vicino ai
Paesi Bassi e al Mare del Nord, tra Amburgo e Brema. Il sottotenente Moretti Mario (1917 – 2008),
di Pordenone, matricola 5580, deportato dopo l’8 settembre, rischia piuttosto di morire di stenti che
di restare senza “mezzi di lavoro”, cioè senza i colori che gli servono per dipingere.
Infatti il sottotenente Moretti è pittore. Si è diplomato al Liceo Artistico, viene chiamato sotto le
armi mentre frequenta l’Accademia di Venezia.
«Saetti, che era il mio maestro, mi stimava, mi riteneva uno dei migliori, se non il migliore.
Tanto è vero che… me lo disse, e mi chiese anche, su due piedi, di fargli io da assistente,
comunicando subito la cosa in Segreteria.
Io, felicissimo, vado immediatamente all’ufficio, ma lì mi gelano: in quanto soldato, non posso
avere quell’incarico. Poco dopo vengo spedito in Jugoslavia, la mia vita cambia completamente,
l’occasione allettante che mi era stata offerta non si ripresenterà più».
Parole del brano iniziale di un colloquio che ebbi con l’artista nel 1997, pubblicato poi nel volume
Bremervörde 1944, che assieme a Guido Cecere curai in quell’anno, a documentazione di una
importante mostra comprendente tra l’altro la riproduzione integrale del suo diario di prigionia, un
piccolo fascicolo costruito con carta di fortuna, e foderato con un pezzo della sua camicia di ufficiale
italiano, prigioniero dei tedeschi in tre successivi campi, Beniaminowo, appunto Bremervörde, e Wietzendorf.
Il documento – ora di proprietà del Civico Museo Ricchieri di Pordenone, assieme ad un buon
gruppo di disegni di quel tempo: devo dire, anche su mia ripetuta sollecitazione – era ed è
commovente non solo come dato storico, ma anche come segno, assieme agli altri lavori, della sua
prima maturità artistica.
Il diario è infatti riempito, oltre che di note scritte, di un gran numero di piccolissimi “progetti di
quadri” che aiutavano il sottotenente Moretti a sopravvivere all’inerzia e alla fame, permettendogli
di estraniarsi dentro la situazione del campo carica non solo di tristezza, ma anche di pericolo:
pericolo di morire se ti ammalavi, ed era facile, pericolo di essere ucciso dalle guardie, se
inavvertitamente ti avvicinavi troppo ai reticolati: lui per fortuna non fu colpito, ma altri sì.
Questi “piccoli progetti”, nature morte, interni, paesaggi tracciati con matite pastelli ed acquarelli –
che gli erano pure costati, quest’ultimi, tre razioni di pane – sono di grande bellezza, un po’ nello
stile del maestro Saetti, ma limpidi, ricchi di un’aria domestica e intima, che era naturalmente quella
che il pittore sognava pensando al suo possibile, problematico ritorno.
Di tutti questi lavori, recuperati anche da collezionisti privati, fu poi fatta, nel 2009, una mostra
completa presso la Risiera di San Sabba a Trieste, a cura del Comune, per ricordare la resistenza
degli internati italiani che non vollero collaborare, in alcun modo, con la Germania hitleriana.
Nel catalogo di quella mostra discorrevo, oltre che dei lavori della prigionia, anche del resto
dell’attività del pittore, sottolineandone l’alto livello sia nella pittura come nella scultura, che
Moretti praticò dal dopoguerra fino alla fine del suo impegno.
Nel 1950 gli vengono acquistati alcuni lavori dal Museo Nazionale della Ceramica di Faenza,
importanti critici apprezzano molto la sua attività in questo settore, che lo vede varie volte presente
alla Biennale di Venezia.
Moretti pratica anche la terracotta e il bronzo e, pur non rifiutando i grandi formati, preferisce le
medie e piccole dimensioni, dove la sua propensione al racconto popolare trova la miglior
realizzazione, in temi quali i cavallini, i nudi, le maternità, i giocolieri, le Annunciazioni, le feste e
tanti altri soggetti, compresi gli “oggetti animati”, vasi, tripodi, orci, anfore e via dicendo.
Una scultura sempre attentissima alla forma, che va spesso oltre il tema narrativo e tocca la
metafora: metafora della tenerezza della vita nelle maternità, metafora della sua metafisica
sospensione in bronzi e terrecotte.
Mentre nella pittura, condotta sempre con alta professionalità, sono due, a mio parere, i momenti
più alti, quello delle “nature morte” e quello delle “battaglie”.
Nelle prime suggerimenti forti gli vengono da Gino Rossi e da Morandi, ma la sua evidente
originalità rimane nel gusto narrativo, prezioso ma non epifanico, della sua andatura comunque
popolare, quotidiana, di magica, intima umiltà.
Le battaglie sono invece la sua risposta all’imperante linguaggio “informel” degli anni sessanta.
Sono grovigli di cavalli e guerrieri che vanno «da un minimo a un massimo di dinamismo e sono, al
minino, ancora scansioni ferme, seppure fittissime, di segni e di vibranti zone cromatiche gestite in
rossi sanguinosi, in blu lividi, in grigi rosa e neri mescolati con strepitosa capacità di tenuta, al
massimo pitture ormai astratte, metafore del movimento, segni rapidi e convulsi che mantengono
tuttavia una sotterranea forza d’organizzazione, l’antica tendenza al costuire, al chiudere. Che è,
dell’arte di Moretti in tutte le sue svariate manifestazioni, l’anima vera, la perseguita certezza oltre
ogni dubbio, pena, dolore e insignificanza della vita».