Le rondini dei coniugi Košuta

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Tu questo hai della rondine:

le movenze leggere;

questo che a me, che mi sentiva ed era

vecchio, annunciavi un’altra primavera.

 

Umberto Saba, A mia moglie, in Casa e campagna

 

 

Perché questi versi di Saba in esergo alla recensione di un librino – in prosa – di un autore sloveno? Le ragioni sono molte, e credo non superficiali: intanto perché l’autore sloveno è, come Saba, poeta e come lui triestino, poi perché Saba è un poeta apprezzato da Miroslav Košuta (questo il nome dello sloveno) che con l’autore del Canzoniere, in alcuni suoi versi, ha intessuto molti anni fa un dialogo possibile soltanto nella lingua misteriosa e universale della poesia, atta a scavalcare barriere linguistiche e anagrafiche, superando persino il mesto confine tra vita e morte. Né le ragioni si fermano qui, perché tutti e due i poeti (mi si consenta di usare anche l’aggettivo «grandi») in versi ugualmente semplici e profondi e in entrambi i casi indimenticabili, hanno saputo parlare di e con un animale, casualmente una capra, abbattendo il sottile diaframma che separa tutti noi dagli (altri) animali. C’è anche questo collegamento di sapore francescano tra i due poeti: se il santo di Assisi predicava agli uccelli, Saba dedica ad essi una delle raccolte poetiche che compongono il Canzoniere e Košuta intitola Potem znenada ptica / D’improvviso un frullo d’ali l’introduzione alla bella scelta antologica della sua opera in versi Spomin odsotnega telesa / Memoria del corpo assente, (coedizione ZTT-EST e CCM, 1999), fruibile in testo a fronte nella traduzione in italiano di Darja Betocchi.

Ed è ancora una volta un frullo d’ali a dare la stura al racconto Diario del nido di rondini, leggibile in italiano (ancora una volta grazie alla Betocchi). Un libriccino in prosa, come si diceva all’inizio, elegante nella sua copertina cartonata e impreziosito dalle illustrazioni di Claudio Palčič, altro illustre artista sloveno di Trieste. Dopo un’affettuosa dedica ad Alojz Rebula, amico e monumento vivente della letteratura slovena del Litorale (come lo chiamano loro) o dell’area giuliana (come chiamiamo noi il medesimo territorio), Košuta inizia la narrazione, in forma di diario. È una storia semplice, l’unica cosa difficile da comprendere è se sia destinata ai ragazzi o a tutti noi, come mi sembra assai più probabile.

Un diario, dunque, di un intervallo temporale compreso tra un 16 aprile e un 21 giugno, che parte attorno a Pasqua, quando, nella casa di Contovello, si diffondono invitanti gli odori accattivanti che provengono dalla cucina senza uguali della signora Marta, affaccendata attorno ai piatti della tradizione che annunciano l’imminente Resurrezione. Con la primavera sono tornate le rondini: «L’anno scorso dal nostro nido ne sono partite sei, eppure ora a svolazzare intorno a casa ve n’è una sola. Il membro sfortunato della coppia o uno dei loro quattro rondinotti?»

Il nostro nido? Cosa può significare? Košuta ce lo spiega – stavo per scrivere “ce lo confessa” – dopo poche righe: il nido in oggetto non è collocato sotto un cornicione o, com’era ai tempi della sua infanzia, in una stalla o in un fienile. Ma dall’anno precedente, abusando di una finestra aperta estate e inverno, le rondini il nido l’hanno faticosamente edificato nella camera da letto, sopra il lettone dei due anziani coniugi. In un primo tempo i due avevano cercato di resistere a quella non auspicata invasione, poi la signora Marta ha tirato fuori un vecchio lenzuolo per coprire la parte più esposta del letto, e prende l’avvio da quel piccolo gesto accogliente l’epopea di questo intenso rapporto tra due persone e le “loro” rondini, storia che non intendo nemmeno riassumere, rimandando i lettori alla lettura del libro, che si srotola tra osservazioni attente, attese e trepidazioni, fino a che, dopo poche settimane, l’ultima rondine fa un ultimo saluto ai suoi amici umani, e un ultimo frullo d’ali risuona a quella finestra, che rimarrà aperta, in attesa degli ospiti dell’anno venturo.

Ho incasellato questo articolo in una rubrica “narrativa”, ma sarebbe stata più adeguata “poesia”, nonostante il libro sia scritto in prosa. Difatti, come può un autentico poeta spogliarsi del suo talento soltanto cambiando giacca?