L’OMBRA DELLO STRANIERO

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di Stefano Crisafulli

 

Un’ombra si staglia sulla parete della camera da letto. Ha le sembianze di Orson Welles, regista e attore principale del film Lo straniero, del 1946, in una parte da protagonista negativo che riproporrà anche in opere successive e di maggior caratura (vedi ad esempio il Macbeth del 1948). Questa la trama, ridotta all’osso: nei panni del professor Rankin (Welles), tranquillo cittadino della provincia americana che sta per sposare la figlia di un giudice (Loretta Young), si nasconde un criminale nazista, Franz Kindler, ma le indagini dell’ispettore Wilson (Edward G. Robinson), soprattutto in seguito a un misterioso omicidio, porteranno alla scoperta della sua vera identità. Dopo un grande successo come Quarto potere, del 1941, era difficile fare qualcosa di più e in effetti Lo straniero viene considerato un film interlocutorio ed imperfetto. E a ragione: molte sono le cose migliorabili, dalla sceneggiatura di Anthony Veiller, che mostra, in alcune scene, qualche incongruenza di troppo, alla musica di Bronislau Kaper, che sottolinea in modo eccessivo la drammaticità di certe situazioni, risultando così didascalica. Ciò che invece merita la visione è l’uso hitchcockiano della suspense: lo spettatore sa già chi è veramente Rankin e sa anche che, per coprire la sua identità, ha ucciso un suo complice del passato, venuto a fargli visita, ma la vicenda è resa interessante soprattutto dal rapporto tra Rankin/Kindler e la moglie, convinta sino all’ultimo della sua innocenza e costantemente in pericolo di vita. Se in Hitchcock, però, l’innocente alla fine si rivela effettivamente tale, in Welles accade proprio il contrario.

Ma c’è un altro elemento che rende Lo straniero qualcosa di più di un’opera minore in bianco e nero: il gioco delle ombre e della finzione. Ombre che annunciano i corpi, che si allungano in modo sinistro sui muri e che denotano le parti oscure dei personaggi. In particolare viene evidenziata l’ombra di Kindler, ma anche l’ombra della moglie, ad un certo punto, appare, quasi a voler segnalare la presenza di una zona d’ombra in ciascun essere umano, secondo le suggestioni della psicologia analitica di Jung. L’ombra, inoltre, riporta alla mente un ruolo che Orson Welles impersonerà con altrettanto carisma solo tre anni dopo nel film di Carol Reed Il terzo uomo e, anche in quel caso, si tratterà di un criminale senza scrupoli. Ma il gioco delle ombre è solo una finzione nella finzione: Welles è, infatti, un attore che finge di essere Rankin che finge di essere Kindler. E questa ambiguità di fondo del personaggio principale, che si riflette nello sviluppo complessivo, è una caratteristica di buona parte della filmografia di Orson Welles, a partire da Quarto potere per giungere a L’infernale Quinlan del 1958. Non a caso in F per Falso, del 1975, Welles afferma che il cinema è ‘un gioco di furbi castelli e specchi e rimandi’. Come gli specchi infranti nella famosa scena finale del film La signora di Shanghai (1947): questo sì un capolavoro, senz’ombra… di dubbio.