L’umanità contro Il signore delle mosche

| | |

di Stefano Crisafulli

 

Se non fosse un film, potrebbe entrare di diritto nella categoria degli esperimenti più crudeli di psicologia sociale. In realtà, prima di diventare un’opera cinematografica in bianco e nero di Peter Brook nel 1963, Il signore delle mosche è stato un romanzo di successo uscito nel 1954 dalla penna di William Golding, che nel 1983 ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Ad ogni modo, in entrambi i casi ci troviamo di fronte ad una storia piuttosto inquietante e perturbante, soprattutto pensando a ciò che sta accadendo oggi nel mondo a causa del famigerato coronavirus. Peter Brook, forse più celebre come uomo di teatro, ha saputo trasporre il romanzo di Golding in modo da non perderne la carica distopica e il risultato è tuttora notevole.

Il romanzo comincia da una guerra nucleare in atto, che spinge le autorità inglesi a mettere su un aereo un nutrito gruppo di ragazzini del più prestigioso college del Regno Unito per portarli al sicuro in Australia. Ma l’aereo precipita su un’isola in mezzo al mare e i sopravvissuti sono solo una ventina, dai sette ai quattordici anni. Gli adulti sono morti e ora i ragazzi devono cavarsela da soli. Ralph, quello più intraprendente, assieme ad un altro miope e un po’ cicciottello che in inglese è soprannominato Piggy (tradotto in italiano con ‘Bombolo’), chiamano a raccolta i sopravvissuti con il suono di una grande conchiglia, la quale servirà anche come simbolico strumento di democrazia per prendere la parola nel gruppo durante l’assemblea. Ralph si propone come capo e viene eletto a maggioranza, nonostante abbia un antagonista, Jack, che si dimostrerà tutt’altro che sottomesso. Le cose iniziano bene, ma prendono una brutta piega quando Jack, che nel frattempo ha formato un gruppetto di cacciatori al fine di procacciare il cibo per tutti, decide di andarsene per conto suo, non sopportando più di ricevere ordini da Ralph. Lo seguiranno in molti, anche a causa di un fantomatico mostro che si troverebbe in mezzo all’isola (sarebbe lui il ‘signore delle mosche’ del titolo, nome con cui gli antichi farisei chiamavano il diavolo) e che, in realtà, è solo il cadavere di uno degli uomini che erano sull’aereo. Jack e gli altri, dopo essersi dipinti il corpo come membri di una tribù primitiva, precipitano sempre più nella propria animalità e abbandonano qualsiasi parvenza civile, sino ad infilzare su un palo la testa di un maiale per offrirlo come sacrificio al mostro dell’isola. Dalla parte della civiltà sono rimasti solo Ralph e Piggy, ma quest’ultimo viene ucciso quando entrambi vanno a chiedere a Jack di restituire gli occhiali di Piggy, necessari a tutti per accendere il fuoco. Il finale, da non rivelare, è ancora più efficace rispetto al romanzo.

Partendo dal fatto, ancora più inquietante, che Golding ha tratto ispirazione per il suo libro da un avvenimento realmente accaduto durante un esperimento sociale nella scuola dove insegnava, ciò che emerge dal film è un pessimismo di fondo verso l’essere umano: la tesi è che, nei momenti di crisi (come, ad esempio, un’epidemia…), escono allo scoperto le caratteristiche peggiori dell’homo sapiens, quelle più animalesche e regressive, mentre le conquiste morali e civili, in breve tempo, spariscono. Del resto il mito del ‘buon selvaggio’ di Rousseau era, appunto, un mito, spazzato via, successivamente, dalle scoperte di Freud. Per quest’ultimo, l’inconscio non è che un ricettacolo di istinti primordiali e desideri inconfessabili, tenuti a bada dal principio di realtà dell’Io e da quella concrezione della morale collettiva rappresentata dal super-Io. Togliete gli argini e individuate un ‘mostro’ esterno, magari un capro espiatorio, e vedrete come l’essere umano si trasforma, lui sì, in un mostro di crudeltà. Rimane solo da sperare che Golding e, in fondo, anche Freud siano stati un po’ troppo pessimisti e che l’essere umano sia migliore di quanto essi credevano. A parziale sostegno della tesi contraria ci sono millenni di storia, nel corso dei quali ci sono state efferatezze, ma anche cooperazione ed empatia tra gli umani. E allora forse non è sempre vero, come pensava Golding, che ‘l’uomo produce il male come le api producono il miele’.