Per Angelo Vivante

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di Luca Zorzenon

 

L’ultima immagine che abbiamo di Angelo Vivante è incisa nella prosa drammatica e concitata di un testo pubblicato nel maggio del 1914 sull’ Avanti! – lo dirigeva allora il “massimalista” Benito Mussolini – e in replica sul Lavoratore di Trieste: I fatti del Primo maggio a Trieste. Sottotitolo: Le due intransigenze. E sempre canagliate del nazionalismo!.

Intuì bene Gramsci, nella noterella dei Quaderni del carcere: Vivante non era solo lo studioso serio, tutto fatti, cifre, dati, da marxista educato alla scuola del positivismo, che si scorge dal lavoro maggiore, Irredentismo adriatico; sapeva anche dar battaglia all’avversario, scendere nell’agone della polemica politica immediata, dal linguaggio aspro e passionale.

Ne I fatti del Primo maggio a Trieste, ultimo testo a stampa che di Vivante si conosca, a poco più di un anno dal suicidio, detta la scrittura un animo esacerbato dall’angoscia per una catastrofe intuita imminente, e non solo a Trieste, laddove il fatto locale si carica di evidenti allusioni ad una situazione europea esplosiva che di lì a poco conoscerà l’innesco dell’attentato di Sarajevo.

Da spettatore partecipe e sconvolto, Vivante assiste al trionfo, anche popolare, delle ideologie nazionaliste, che del Primo maggio occupano la scena, invadono la piazza, sormontano l’ideale socialista di unità internazionale dei lavoratori, e con esso la difesa della pace proletaria contro i venti di guerra che spirano da altro internazionalismo, quello del moderno capitale, industriale e finanziario, che per affermarsi degenera nella violenza della reciproca sopraffazione nazionale-imperialista.

Due cortei, l’uno italiano, l’altro sloveno, in buona percentuale popolari, manovrati, tuttavia, dalle rispettive borghesie nazionali, che sciamano per Trieste, vengono allo scontro verbale e fisico: urla, accuse e vituperi reciproci, e cazzotti. Se la ride, fregandosi le mani – scrive Vivante – la borghesia, l’italiana non meno della slovena.

Vivante assiste nella sua Trieste a ciò che temeva – e non da poco tempo – per l’immediato futuro dell’intera Europa. La curva reazionaria dell’idea di nazione che la borghesia ha progressivamente disegnato nei decenni a cavallo del nuovo secolo, abbandonandone i presupposti progressisti, ormai lontani, del ’48 e della “primavera dei popoli”, sta chiudendo nel cerchio dei suoi interessi di classe dominante anche parte delle masse popolari, in questo scorcio di primo ’900 che le vede inevitabilmente entrare sul proscenio della Storia: ceti medi, ceti piccolo borghesi, ceti a rischio di proletarizzazione, e anche lavoratori, operai di fabbriche e cantieri.

È il pedale del nazionalismo, dell’identità patriottica difensivo-aggressiva e conflittuale che, a pigiarlo, funziona. Le vie e le piazze di Trieste dicono questo. Quando, al tempo, l’unico partito di massa in Europa poteva a buon diritto credersi quello socialista, della socialdemocrazia della II Internazionale. Quei cortei nelle vie e nelle piazze di Trieste dicono agli occhi di Vivante che piazze e vie d’Europa non sono più solo luoghi dei lavoratori, del Socialismo, degli scioperi, dominio extraparlamentare del proletariato, tanto nell’idea riformista che, ancor più, nella versione rivoluzionaria: nemmeno il Primo maggio è più al sicuro, anch’esso diviene improvvisamente, e con sconcerto, luogo di uno scontro egemonico con una “piazza di destra”, in cui la media e piccola borghesia, del ceto politico e intellettuale, è capace oramai di esercitare anch’essa la sua attrazione sulle classi popolari, le arruola a prospettive di opportunismo nazionalista, propone loro miraggi di una diversa sicurezza social-identitaria, non più di classe, ma di patriottismo nazionale interclassista il cui “nemico” è il patriottismo degli altri (nazioni, stati, etnie, lingue e culture), anche degli “altri” popoli, degli “altri” lavoratori: lavoratori contro lavoratori.

Ciò che Vivante ha dinanzi agli occhi quel Primo maggio a Trieste è immediatamente evidente in terre a nazionalità mista, ma guadagna terreno in tutto l’Impero asburgico: già dal 1910 c’è stata la fuoriuscita autonomista-nazionalista dei socialisti (e dei sindacati) cechi da quella “piccola internazionale socialista” che il socialismo austriaco fino a non molti anni prima si vantava in Europa di rappresentare entro la più vasta Internazionale dei lavoratori.

Un terzo corteo, allora, avanza per le vie di Trieste, ma terzo. Quello che per Vivante è l’unico degno di celebrare il Primo maggio: sciama anch’esso, compatto, ma non più unico. Il corteo socialista, che unisce nella coscienza di classe di un identico sfruttamento economico ed umano, di una comune mancanza di diritti sociali e politici, di uno stesso nemico di classe internazionale, lavoratori italiani e lavoratori slavi insieme. Unica speranza, per Vivante, che a Trieste in quel Primo maggio del 1914 non si inscenino, invece, le prove generali della crisi politica definitiva dell’Impero multinazionale e del suo austro-socialismo che lavora a trasformarlo finalmente in una democrazia che i popoli li federi, li affratelli e non li soggioghi. E dal suo crollo, per Vivante, non sarebbe la liberazione delle nazioni ma la guerra tra i popoli e, a macchia d’olio, in tutta Europa: e ne verrebbe il crollo anche del socialismo. Quel corteo socialista che Vivante vorrebbe veder trionfare gli fa uscir di penna le ultime parole a stampa che di lui si leggono: «La risposta – e la salute – è in noi».

In “noi”, socialisti. La salute, quella personale, Vivante tempo un anno la perderà. Ma di un’altra, latinamente, intendeva dire: la salvezza, quella politica, collettiva, quella dei popoli e, nei popoli, del proletariato. Speranza di salvezza affidata per lui ad un’unica prospettiva, quella dell’internazionalismo socialista proletario tenacemente a guardia della pace mondiale. Sappiamo, tempo alcuni mesi, come andrà a finire. Crediti di guerra votati nei rispettivi parlamenti, unioni di sacro patriottismo (anche dei socialdemocratici austriaci con i compagni tedeschi), formulazioni che né aderiscono né sabotano: il socialismo della II Internazionale crolla, assieme alla pace, nell’agosto del 1914.

 

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Vista dalla sua conclusione la parabola politica e intellettuale di Angelo Vivante si rivela anche più drammatica, e se diremmo tragica è nel senso classico del termine: socialista austriaco del Litorale adriatico, di lingua e cultura italiane, ci appare figura che si consuma nel conflitto irriducibile e storicamente non più mediabile tra due valori: quello del socialismo e quello della nazione. Il suo socialismo, quello che fu chiamato “austromarxismo” nell’ambito della più vasta congerie teorica della II Internazionale, aveva gettato le sue energie intellettuali migliori, offerto il suo contributo teorico più originale, nella ricerca di una mediazione del conflitto tra socialismo e nazione, e l’aveva scoperta, proprio dal cuore del vecchio Impero multinazionale oramai in palese crisi istituzionale e di gestione politica, questione non più eludibile nella sua urgenza storica, e da affrontare con metodo marxista ma entro uno scenario a cavallo del secolo le cui trasformazioni socio-economiche per forza di cose esorbitavano oramai dalle concrete analisi di Marx ed Engels circa la questione nazionale.

Dai cenni di Kautsky sul rapporto tra rigore nella fedeltà all’internazionalismo e considerazione del problema nazionale, ai saggi di “ingegneria” costituzionale e istituzionale di Renner sulla trasformazione dell’Impero in un assetto nazionale federativo che tuttavia mantenesse un suo centralismo politico unitario (seppure di un centralismo non più “atomistico”), dal dibattito sulla concezione “personale” di nazionalità versus quella “territoriale” all’idea di superamento dei kronländer, dal compromesso del Programma di Brünn alla riflessione sul significato della rivoluzione russa del 1905 che riproponeva, con Lenin e la Luxemburg, la questione se di “autonomia” oppure di “autodeterminazione” dei popoli si dovesse trattare, di carne al fuoco i teorici dell’austromarxismo ne misero tanta. Ma il libro del giovane Otto Bauer, Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie (1908), fu sicuramente un salto di qualità. Riaffermava con originalità teorica non solo il socialismo che in Austria realizza la sua piccola internazionale-modello, o il socialismo che sfrutta le dinamiche e le tendenze del moderno capitalismo industriale per affermarsi come forza che renda finalmente le masse e i lavoratori protagonisti consapevoli della nazione e dello stato, o il socialismo che spinge le borghesie nazionali dell’Impero a quella soluzione riformatrice liberal-federal democratica che possa preludere all’affermazione di una democrazia socialista, ma predicava una forma di socialismo – scriveva Bauer – che avesse da raccogliere e prender in mano sventolandola quella bandiera dell’idea progressista di nazione che la borghesia europea del capitale internazional-imperialista dei primi del ’900 aveva oramai ripudiato e lasciato cadere a terra.

Proprio ciò che Vivante quel Primo maggio del 1914, a Trieste, vede drammaticamente smentito nella prassi concreta. E rovesciato di segno.

Le borghesie, sotto l’egida ideologica del nazionalismo aggressivo e conflittuale, catturano e sottomettono ai propri interessi dominanti anche i ceti popolari, anche i lavoratori; e li dividono, li allontanano dalla fraternità di classe e dalla solidarietà internazionale e socialista. Lo aveva scritto Rosa Luxemburg nel 1908: le borghesie europee utilizzavano strumentalmente la questione nazionale mascherandovi all’interno la reciproca volontà di potenza imperialista dei rispettivi Stati nella lotta per l’egemonia sul mercato mondiale. Ed anche le cosiddette «nazioni senza storia», nella loro progressiva formazione di una classe dirigente borghese, alla cui analisi pur Bauer aveva dedicato pagine significative, si apprestavano, tuttavia, per il loro processo di riscatto, a percorrere la medesima strada.

Un anno prima, nel 1913, in un ampio saggio in quattro parti intitolato Nazioni e stato in Austria-Ungheria, pubblicato sull’Unità di Salvemini, Vivante era partito dal citare proprio le opere di Karl Renner e Otto Bauer, non troppo conosciute allora in Italia. E non solo di un contributo divulgativo e informativo si trattava, a beneficio della cultura politica del socialismo in Italia, ma di un’interpretazione anche personale dei grandi teorici dell’austromarxismo. E Vivante si dimostra rispettosamente scettico su taluni assunti, soprattutto rinvenibili in Bauer, riguardanti la conciliabilità tra socialismo e nazione, tra internazionalismo di classe e socialismo come inveramento autentico della coscienza nazionale: pur in modi problematici e consapevole dei rischi di un riduzionismo ideologico di matrice economicista, si tiene aggrappato al primo dei termini delle diadi. Con supporto di analisi ed esemplificazioni concrete, tratte spesso dal caso separatista, per lui negativo, del socialismo nazionale ceco, che anche Kautsky nel frattempo deprecava.

Il rapporto di Vivante con Gaetano Salvemini ci riporta ancora indietro di qualche anno: al 1908 e alla garbata, signorile polemica che i due (Salvemini ancora non uscito dal partito socialista) intrattengono su Critica sociale a proposito dell’annessione formale della Bosnia-Erzegovina all’Impero asburgico e dei destini difficili dell’internazionalismo messo in crisi – a detta dell’intellettuale pugliese – proprio dall’atteggiamento dei socialisti austriaci di larvata connivenza con le aspirazioni imperialiste asburgiche: nella quale polemica tocca alla Direzione della rivista (ovvero allo stesso Turati) precisare in avvertenza ai lettori che il pensiero di Salvemini sulla questione non può ritenersi la linea ufficiale del partito socialista italiano, se egli invoca pure la rottura italiana della Triplice e un possibile deciso cambio delle alleanze internazionali.

Ancora qualche anno e, tra il 1910 e il 1912, mallevadore Scipio Slataper, Vivante, allarga il campo politico e culturale della sua funzione di mediatore del socialismo adriatico in ambienti socialisti italiani, e trova accoglienza anche nella cerchia di un liberalismo italiano di nuova generazione che allora si vuol innovatore e tendenzialmente progressista, quello dei migliori anni della «Voce»: sulla rivista fiorentina divulga dati, cifre e interpretazioni della situazione politica, economica e sociale della Trieste multinazionale, in articoli che preludiano a Irredentismo adriatico: quest’ultimo, peraltro, sempre per mediazione slataperiana, pubblicato nel ’12 a Firenze, solo due mesi prima del Mio Carso, nella medesima collana editoriale della Libreria della Voce.

Sull’Unità di Salvemini, poi, Amilcare Storchi, socialista reggiano, allievo di Camillo Prampolini, amico fidato di Vivante, suo compagno anche nella passione per le “biciclettate” sul Carso, che su sua sollecitazione si era trasferito per più di un anno a Trieste, a rinnovare e rinvigorire Il Lavoratore nel periodo a cavallo delle elezioni del parlamento asburgico del 1907 (le prime che consentono diritti elettorali alle classi popolari e che a Trieste vedono il trionfo dei socialisti) , dà manforte scrivendo della situazione triestina e del socialismo adriatico in forme e contenuti sicuramente debitori e continuatori delle idee di Vivante stesso, accennando pure alla pattuglia di Slataper e dei triestini “vociani” e al loro lavoro di critica, e sia pur liberale, all’irredentismo giuliano del partito nazionale borghese.

E ancora, il pamphlet Dal covo dei traditori, 1914, sette articoli sull’ Avanti!, replicati sul Lavoratore, pubblicati poi in volume nella collana del quotidiano socialista italiano.

È vero, dell’idea di nazione Vivante diffidava. Nel significativo carteggio con Prezzolini e con Salvemini, pubblicato a suo tempo da Elio Apih, non esita a definirsi anazionale, chiama a raccolta intellettuali anche non marxisti (da Bagehot ad Angell) a supporto della sua idea che l’ideologia nazionalista sviluppi forme di identità a rischio di violente barbariche regressioni culturali, o che lo stato-nazione sia in via di definitivo superamento, e prima di tutto per le tendenze internazionali del moderno capitale finanziario e industriale. Ma quando la classe dirigente liberal nazionale triestina sviluppa esiti di un nazionalismo aggressivo e antislavo, di un irredentismo che imbocca decisamente la via del separatismo politico anche a costo della guerra, e nel contempo al partito socialista piovono accuse di tradimento dell’italianità, la reazione di Vivante, del “socialista traditore”, senza perder in lucidità di argomentazione razionale, tocca punte di risentimento e rilancio polemico davvero acute e sofferte. Fino al rovesciamento dell’accusa, di “anti-italianità” triestina, sulle spalle dell’irredentismo nazionalista più esasperato.

Dopo i fatti di quel Primo maggio del 1914 da cui si è partiti, il silenzio di Angelo Vivante pare assoluto. Dopo poco più di un anno, invece, un gesto – non più parole – con cui decide di metter fine alla vita, quando da Trieste si potevano scorgere di già le nuvole delle granate che iniziavano a martoriare il Carso, udire l’eco martellante delle bombe. Lascia tutto ciò che ha al padre, alla madre, alla Cassa distrettuale per ammalati, istituzione fiore all’occhiello del socialismo triestino, per cui tanto si era speso. Sapeva cosa fosse la malattia. Aveva confessato a Prezzolini, che lo invitava a più accurata pubblicità della sua opera: «io aborro dalla vista del mio nome stampato».

 

A ricordare la figura di Angelo Vivante, a riproporre prospettive di studio sul suo pensiero saranno Renate Lunzer, Anna Millo, Marta Verginella, Salvator Zîtko, a considerare le ragioni di un’antologia che raccolga i suoi scritti più ampi e notevoli, sparsi in riviste e giornali, chi scrive queste righe, Fulvio Senardi a intrecciare e moderare gli interventi. A Trieste, il 2 dicembre 2016, presso l’Aula magna della Scuola Superiore per interpreti di Trieste, a partire dalle 17.00, per l’organizzazione del Centro Studi Scipio Slataper.

 

 

RIQUADRO:

Note bio-bibliografiche:

 

VIVANTE, Angelo

Trieste, 1869 – 1915.

Nacque da una famiglia della ricca borghesia ebraica triestina. Dopo gli studi nella città natale, frequentò l’Università di Bologna, dove si laureò in Giurisprudenza. Finiti gli studi e tornato a Trieste, lavorò come redattore al quotidiano Il Piccolo, tra il 1900 e il 1906, occupandosi in particolare di politica estera. A partire dal 1902 prese a frequentare il Circolo di Studi Sociali, di ispirazione socialista, e poco a poco si avvicinò alla visione dell’austro-marxismo, in particolare per quanto atteneva al rapporto fra emancipazione sociale e aspirazioni nazionali, che nell’Impero austro-ungarico, ovviamente, erano in conflitto con l’unitarietà dello stato. Nel 1907 si iscrisse al Partito socialista e ben presto diresse Il Lavoratore, organo del partito triestino, collaborando anche con le due testate nazionali dei socialisti del Regno d’Italia, l’Avanti! e La Critica Sociale. In fruttuosa relazione dialettica con Salvemini e con Slataper, veniva sempre più precisando le tesi che avrebbe alfine espresso nella sua opera più significativa, Irredentismo adriatico, basandole su un’analisi condotta con spirito positivistico, con gli strumenti di un marxismo “scientifico” e non ideologico che gli consentiva di individuare, soprattutto per quanto concerneva la questione della lotta nazionale contro il dominio austriaco, il terreno di confronto su una effettiva realtà storica e sociologica e non già basandosi su retoriche falsificanti, terreno prediletto degli interventi dei suoi antagonisti. Tale atteggiamento, via via che si avvicinava la guerra e con essa la possibilità, poi effettivamente realizzatasi, di una spallata conclusiva dell’esperienza imperial regia, in gran parte originata dalla sordità degli ambienti militari e governatvi della Corte di Vienna ad ogni sollecitazione federalistica, lo collocarono in una posizione sempre più isolata tanto a Trieste quanto in Italia, che, in particolare dopo l’attentato di Sarajevo, aveva visto in sostanza l’intero ceto intellettuale schierarsi su posizioni interventiste. Morì suicida il primo luglio 1915, sottraendosi così dall’obbligo di partecipare personalmente a una guerra che aveva in ogni modo osteggiata.

Volumi pubblicati:

Irredentismo adriatico: contributo alla discussione sui rapporti austro-italiani. Firenze Libreria della Voce, 1912, indi Casa editrice “Giulia”, senza indicazione del luogo, 1945, indi Ed. Parenti, Firenze 1954, indi, a cura di Elio Apih, Edizioni “Italo Svevo”, 1984; Dal covo dei traditori: note triestine, Società editrice Avanti!, Milano 1914.

Bibliografia:

Gualtiero Castellini, Trento e Trieste, l’irredentismo e il problema Adriatico; Fratelli Treves, Milano 1914, indi: ivi 1918; Franco Andreucci, Tommaso Detti, (a cura di) Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, 1853-1943, Editori riuniti, Roma 1975-1979; Camillo Daneo, Elio Apih, Come vide la luce “Irredentismo Adriatico”: le lettere di Angelo Vivante a Prezzolini ed a Salvemini, in Qualestoria, a. 11., n. 2, Trieste giugno 1983; Il fantasma di Angelo Vivante, Cooperativa editoriale Il campo, Istituto friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine 1988; Anna Millo, Storia di una borghesia. La famiglia Vivante a Trieste dalĺ’emporio alla guerra mondiale, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1998.

Sitografia:

http://www.atrieste.eu/Wiki/doku.php?id=storia_ts:biografie:vivante_angelo

http://www.atlantegrandeguerra.it/portfolio/angelo-vivante/

http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2012/11/23/PR_41_01.html

 

da: Walter Chiereghin e Claudio H. Martelli, Dizionario degli autori di Trieste, dell’Isontino, dell’Istria e della Dalmazia, Hammerle editore, Trieste 2014.