Eisenstaedt, un testimone del nostro tempo

| | |

Un’interessante mostra all’Accademia Tedesca di Villa Massimo a Roma

di Michele De Luca

 

C’è un dato particolarmente significativo nella biografia del fotografo tedesco Alfred Eisenstaedt, nato nel 1898 a Dirschau, nella Prussia Occidentale, oggi annessa alla Polonia, e scomparso a Martha’s Vineyard nel Massachusetts nel 1995, considerato un mito indiscusso del fotogiornalismo di tutti i tempi: è che la prima grande mostra personale dedicata al suo lavoro, dopo quella del 1954 all’International Museum of Photography di Rochester, N.Y., con il significativo titolo “Witness to our time” (Testimone del nostro tempo), arriverà, al Time-Life Building di New York soltanto nel 1966 e nell’occasione venne stampato un libro catalogo edito dalla Wilking Press. Si trattava in pratica di un “omaggio” ad uno dei suoi più prestigiosi fotografi per la sua trentennale attività: Eisenstaedt (“Eisie” per amici e colleghi) ha lavorato per la rivista fondata dal magnate dell’industria giornalistica Henry Luce fin dal suo primo numero uscito il 23 novembre del 1936. Un dato che può forse raccomandare un tantino di pazienza a tanti giovani scalpitanti fotografi che vorrebbero esporre già dai primi rullini realizzati.

Il primo incontro di “Eisie” con la fotografia avvenne in occasione del suo quattordicesimo compleanno, quando gli venne regalata una Eastman n. 3; ma è solo intorno al 1920 che torna ad occuparsene lavorando con una Zeiss Ideal 9×12 a soffietto, con qualche consapevolezza professionale imposta anche dalle difficoltà economiche in cui venne a trovarsi la sua famiglia; nel ’22 la rivista Der Weltspiegel, edizione settimanale illustrata del Berliner Tageblatt, gli acquista per dodici marchi (cifra allora di non poco conto) la foto di una giocatrice di tennis scattata in Cecoslovacchia. Era un momento favorevole e di grandi prospettive per la fotografia, strumento ormai maturo per entrare a pieno titolo nel settore dell’informazione; erano gli anni in cui Erich Salomon, con la “candid photo”, veniva già da qualche tempo dimostrando quale nuovo e incredibile spazio si aprisse alla fotografia nel campo della cronaca illustrata.

Risale comunque al ’29 la “scelta di vita” di Eisenstaedt, che lascia definitivamente ogni altra attività (per un certo periodo ha sbarcato il lunario vendendo cinture e bottoni per conto di un grossista berlinese) per dedicarsi completamente alla fotografia; il 9 dicembre realizza il suo primo servizio da professionista come inviato della Associated Press e per conto della rivista Die Funkestunde, riprendendo a Stoccolma la consegna del Premio Nobel a Thomas Mann. Nel ’30, cominciando ad usare la Leica (la prima fotocamera 35 mm. a telemetro, dotata di obiettivi intercambiabili e molto luminosi), realizza un famoso reportage sulla scuola di ballo dell’Opera di Parigi. Dopo di che lo vediamo presente e impegnato a riprendere aspetti poco consueti al mondo delle immagini fotografiche e delle riviste illustrate: la povera gente delle Halles o del malfamato quartiere londinese di Whitechapel diventa protagonista di alcuni suoi servizi che scuotono l’opinione pubblica per la loro carica di denuncia e il loro crudo realismo. Sempre nel ’30 viene inviato in Italia per riprendere il matrimonio di Giovanna di Savoia con Re Boris di Bulgaria ad Assisi; fotografa di tutto, anche la sposa con il lift dell’albergo, dimenticandosi, però – sembra incredibile – di fotografare la cerimonia ufficiale e di fornire le foto commissionategli dalla rivista.

Testimone del nostro tempo, come dice il titolo della sua mostra newyorchese, Eisenstaedt fotografa il primo incontro fra Hirler e Mussolini a Venezia nel 1934, così come avvenimenti culturali e mondani, oltre a numerosi personaggi. Sempre per l’Associated Press porta a termine in Etiopia uno storico e grandioso reportage (3.500 fotogrammi); nello stesso anno, sotto l’incalzare della campagna antisemitica nazista, il fotografo emigra negli Stati Uniti, dove, come si è detto, diviene uno dei principali collaboratori di Life. La sua carriera di oltre quarant’anni presso questa rivista può essere lasciata alla sintesi dei numeri: un milione di negativi, oltre ottanta copertine, duemila servizi nei cinque continenti destinati mediamente a circa venti milioni di lettori.

“In ogni fotografia – ha scritto “Eisie” – vi è sempre qualcosa da imparare: per questo occorre portare a termine ogni nuovo incarico con la stessa volontà con la quale si è affrontato il primo. Interesse e entusiasmo sono il vero segreto dell’autentico fotografo”. Ed è con questa intramontabile carica di entusiasmo che nel 1979, all’età di ottantuno anni, dopo oltre quattro decenni di assenza, tornò in Germania per cercare con il suo obiettivo il volto nuovo del Paese che aveva fotografato prima di emigrare.

Circa trent’anni fa, esattamente nel gennaio del 1985, proprio a questo confronto tra la Germania lasciata dal fotografo e quella da lui ritrovata al suo ritorno, venne dedicata una interessante mostra itinerante che, dopo la “prima” all’Accademia Albertina di Torino, realizzata con la collaborazione del Goethe Institut con foto provenienti dal Rheinisches Landesmuseum di Bonn). Bene ha fatto ora l’Accademia Tedesca di Roma Villa Massimo ha riproporre al grande pubblico (in accoppiata con un’altra grande fotografa tedesca, Lotte Jacobj) la gigantesca figura di questo fotografo, pur concentrandosi in particolare (e meritoriamente, perché evidenzia quello che non era un suo principale campo di attività, certamente meno “professionale” e più “artistico”) sulla ritrattistica, in cui emerge il potere introspettivo del suo obiettivo (qualcosa ci richiama August Sander, ma le finalità erano estremamente diverse e lontane). Anche in questi ritratti si riconosce la “cifra” della sua fotografia, che, anche qui, si distingue per la mancanza assoluta di retorica, per asciuttezza formale e forza di sintesi.

Non manca però in mostra la sua immagine più nota e famosaV-J day in Times Square, che rappresenta un marinaio americano che bacia una crocerossina in Times Square (la piazza più piazza d’America, crocevia non solo di New York, ma del mondo), il 15 agosto 1945; la foto apparve sul numero di Life che celebrava la fine della Seconda guerra mondiale, ma – come ha scritto su Fotocrazia Michele Smargiassi – in verità non fu neppure scelta per la copertina, ma era ‘la’ foto, e negli anni lo dimostrò”. La mente e gli occhi vanno ad un altro celebre “bacio”, quello immortalato da Doisneau, il Basier de l’Hotel de Ville; quest’ultimo forse più intenso, ma meno “gioioso” di quello di “Eisie”.