Illustrare l’illustre poeta

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La Commedia: una sfida a tradurre in immagini le terzine di Dante (parte sesta)

di Walter Chiereghin

 

Il Novecento si apre con una straordinaria fioritura della produzione artistica che, a partire dal Trecento, aveva individuato nella figura di Dante e soprattutto nella sua opera maggiore una tematica che vide coinvolti anonimi miniatori e grandi maestri della pittura internazionale, da Botticelli a Michelangelo, da Zuccari a Füssli, da Reynolds, a Delacroix, da Blake a Rodin, e naturalmente a Doré e poi al “nostro” Scaramuzza.

In particolare, per quanto attiene all’Italia, proprio all’inaugurazione del nuovo secolo si assistette a una ripresa d’interesse che ebbe un suo fulcro, per quanto riguarda l’illustrazione, nel concorso bandito a Firenze dall’editore Vittorio Alinari in occasione del sesto centenario dell’elezione di Dante a Priore delle Arti della Repubblica fiorentina (oppure, se si vuole, del viaggio del poeta nell’Aldilà). L’iniziativa nasceva in un contesto culturale particolarmente interessato alla figura e all’opera del poeta: Gabriele D’annunzio, che compì l’8 gennaio 1900 una memorabile lectura del Canto VIII dell’Inferno in Orsanmichele, pubblicò in quello stesso anno la sua Laude di Dante, mentre Pascoli aveva pubblicato due anni prima la sua Minerva oscura, cui seguirono, a intervalli di due anni, Sotto il velame e La mirabile Visione, tre saggi che testimoniano di uno sforzo ermeneutico assillante nel poeta e intellettuale romagnolo, concentrato sull’opera di Dante. Carducci aveva già dato, in tutta la sua carriera di professore e di poeta, e continuava a farlo. Fu in questo clima culturale che venne bandito il concorso dell’Alinari, cui parteciparono trentuno artisti. Il bando prevedeva che ogni concorrente inviasse saggi illustrativi di almeno due canti, oltre a due tavole di testa e due finali.

Il primo posto fu assegnato, il 13 giugno 1901, ad Alberto Zardo (1876-1959), artista legato a una pittura di orientamento realistico, mentre al secondo posto si affermò un giovanissimo autore, Armando Spaldini (1883-1925) che in seguito sarebbe stato tra i protagonisti della Scuola romana, ma che all’epoca era ancora impacciato in un realismo di stampo accademico. Alla vigilia della premiazione fu poi assegnato anche un terzo posto, diviso ex aequo tra Ernesto Bellandi (1842-1916), noto soprattutto per la sua pittura a fresco, e Duilio Cambellotti (1976-1960), che fu illustratore, ma anche scultore, pittore, cartellonista, designer e scenografo. La sua lettura della Commedia, anzi dei canti dell’Inferno di cui si occupò, è improntata a un figurativismo scenografico di grande effetto, che grazie ai suoi ricercati effetti chiaroscurali e alle dissolvenze e velature consentite dalla tecnica a carboncino e pastello rendono con non comune efficacia l’atmosfera cupa ed orrifica dei gironi infernali.

Con tali sue scelte, la giuria, composta da artisti fiorentini di lungo corso e illustri dantisti, rivelò un suo orientamento di matrice alquanto passatista, o comunque legato alla tradizione, e per la Fratelli Alinari la scelta per l’edizione 1902 dell’Inferno divenne, in assenza di un autentico trionfatore che fosse in grado di reggere l’impegno di illustrare per intero il volume, quella di assoldare quasi tutti i candidati, con l’ovvio risultato di dar corpo a un’edizione della Commedia, completata nel 1903, che rivelava nelle 388 tavole che la illustravano la connotazione collettiva, discontinua ed eterogenea dell’impianto figurativo, che finì per risultare eclettico e sostanzialmente privo di un carattere unitario riconoscibile.

Del resto, proprio in quell’intervallo di tempo, cioè fin dai primissimi anni del secolo, l’accentuato interesse per l’opera di Dante si tradusse anche in molta ricerca visuale, anche se non sempre proiettata verso innovazione e nuove sperimentazioni, anzi spesso attardata a ripetere modalità mutuate dal passato, attingendo prevalentemente a esperienze ottocentesche. Un caso limite, poi, fu opera di un ingegnere e appassionato miniatore, Attilio Razzolini che si dilettò, coadiuvato da aiuti, a realizzare su pergamena una Divina Commedia alla maniera quattrocentesca, con frontespizi, incipit, cornici decorate a colori e oro, e con il testo in caratteri di imitazione gotica. Un’edizione a stampa in formato ridotto venne stampata nel 1902 dall’editore Alfieri & Lacroix di Milano.

Un altro originale tentativo di addentrarsi nell’opera dantesca con strumenti figurativi del tutto eterodossi, fu quello di Domenico Mastroianni (1876-1962), che realizzò delle sculture in creta o plastilina che poi, fotografate, vennero riprodotte in cartoline virate in sanguigna ed edite con successo a Parigi e dalle edizioni Traldi a Milano., con un esplicito richiamo allo stile di Doré.

Sempre dal concorso Alinari inizia lentamente a svilupparsi l’impegno di illustratore della Commedia di un altro artista italiano, originario di Oderzo, Alberto Martini (1876-1954), che quando, a partire dal 1901, si cimenta con il testo dantesco, ha già alle spalle un promettente curriculum di disegnatore, esperienze anche internazionali, la presenza alle prime edizioni della Biennale veneziana e anche l’illustrazione di testi letterari, quali il Morgante Maggiore di Luigi Pulci, e La secchia rapita di Alessandro Tassoni. Martini si accostò a Dante per partecipare al concorso per l’illustrazione della Commedia. Dopo alcune tavole – diciannove disegni acquerellati – presentati al concorso Alinari (che non lo vide tra i vincitori) e una successiva collaborazione alla seconda edizione Alinari nel 1922, affrontò sistematicamente, soltanto negli anni Trenta, l’illustrazione del poema col risultato di 297 tecniche miste, significativamente raggruppate sotto il titolo Nuovo commento figurato, che sarebbero dovute confluire in un’edizione Sadel, la quale però non pervenne mai alla stampa. In massima parte realizzate in bianco e nero, che accentua la drammatizzazione di personaggi, contesti ed episodi rappresentati, le tavole di Martini, mai raccolte in volume se non in edizioni postume, sono connotate da una forte messa in scena di immagini e situazioni grottesche e macabre, appoggiate a una visione surreale, espressionista, ma anche rinnovellante un aura medievale, e comunque in implicita polemica con le figurazioni di Doré e di quanti altri si ispirarono a una concezione romantica cui Martini sentiva di non poter appartenere.

Pressoché contemporanea a quella di Martini, ma invece nella scia di Doré e di Scaramuzza s’innesta, sollecitata da Gabriele D’Annunzio, l’illustrazione del poema opera del genovese Amos Nattini (1892-1985), che si accinse all’opera – durata un decennio, a partire dal 1931 – influenzato anche dalla Secessione, dal gusto preraffaellita inglese e dall’estetismo dannunziano. I suoi dipinti, cento, quasi tutti all’acquerello, sono concepiti in stretta aderenza al testo dantesco, attenti ai più minuti dettagli e per di più vividamente colorati, in un insieme di modalità esecutive che conducono a una resa realistica dei soggetti rappresentati, improntati tutti a un naturalismo visionario.

Ma la storia della rappresentazione figurativa della Commedia nei primi decenni del Novecento non fu, naturalmente, soltanto una questione italiana.

 

Amos Nattini

Allegoria del carro

(Purgatorio, XXXI)

acquerello su carta