La scomparsa di Alojz Rebula

| |

Lo scorso 23 ottobre ci ha lasciato Alojz REBULA, che intendiamo qui ricordare con un breve profilo, riservandoci di fornire una più completa valutazione critica nei prossimi numeri del Ponte rosso.

 

Di mili origini, dovette affrontare gli studi primari in una lingua, l’italiano, diversa dalla sua, in quanto la riforma Gentile aveva abolito le scuole con lingua d’insegnamento straniera. Compì comunque gli studi ginnasiali a Gorizia e quelli liceali al seminario di Udine, per laurearsi poi nel 1949 a Lubiana in Filologia classica. Nel frattempo, dal 1946, aveva iniziato a pubblicare liriche e prose brevi. Il primo romanzo, Devinski sholar (Lo scolaro di Duino) è del 1954 ed è una riflessione in parte autobiografica, condivisa con la sua generazione di sloveni che riuscirono a superare i tentativi di genocidio culturale, guidando poi la lotta di Liberazione e conseguendo consapevolezza di sé e del proprio ruolo nella società. Nel ‘60 all’Università “La Sapienza” di Roma discusse la tesi di dottorato sulla traduzione slovena della Commedia di Dante. Negli anni che hanno preceduto quel traguardo formativo visse una “spaventosa crisi esistenziale” in esito alla quale si riconobbe in una rinnovata e totalizzante fede in una trascendenza, della quale si trovano tracce nel romanzo Senčni ples (del 1960, appunto) e in molta parte della produzione letteraria successiva, a cominciare da V Sibilinem vetru, del 1968, considerata un capolavoro e prima sua opera ad essere pubblicata in italiano (ma appena nel 1992), col titolo Nel vento della Sibilla. Nonostante una velata critica al regime di Tito e alla nomenklatura dell’epoca, il romanzo gli valse il premio della Fondazione Preseren, massimo riconoscimento sloveno in ambito culturale. Subito dopo la laurea, insegnò a Trieste nelle scuole medie con lingua d’insegnamento slovena, poi, a partire dal 1953 e fino al pensionamento, latino e greco al liceo classico. La profonda conoscenza dei classici che è alla base della sua cultura e costituisce il nucleo centrale dello stile della sua prosa e persino del suo eloquio, sempre improntati a un’elegante trasparenza; definì la classicità come una costellazione che rischiara la notte dell’esistenza. Anche la vicinanza alla letteratura italiana, la conoscenza non superficiale di Dante (che definisce come “un fenomeno planetario” più che letterario) e, più in generale, la lettura e la riflessione sui testi delle grandi letterature occidentali e di quella russa hanno posto le basi per costruire attorno alla sua opera la solida reputazione di un grande intellettuale europeo. È stato autore di una quarantina di romanzi, e oltre a questi, raccolte di novelle, drammi teatrali e radiofonici, ritratti filosofici e traduzioni. In tutta l’opera letteraria e diaristica dello scritore confluiscono i motivi ispiratori della sua inesausta ricerca, come quelli della sua rasserenata contemplazione della realtà, dalla soluzione tenace della fede religiosa, che ha ragione del dubbio e della tentazione di inanità dell’esistere, della sua slovenità, conseguita come un traguardo, considerando le vessazioni che storicamente l’hanno conculcata, della quale fa parte anche l’uso dello strumento linguistico caratterizzato da “una maggior dinamica e solerzia stilistica, poiché la parola diventa per lui sinonimo di battaglia per la propria minacciata libertà e identità” (Marija Pirjevec). E ancora il rapporto problematico con la città di origine, cui non riesce a perdonare la sordità della componente etnica italiana rispetto alla storia, alle sofferenze, alla cultura di quella slovena. “I valori di Alojz Rebula. I tratti somatici della sua anima. I lemmi del suo vocabolario artistico e ontologico. Schubertianamente incompiuto. Perché Alojz Rebula – autore sloveno triestino, ma di cultura, erudizione e levatura europee – non ha ancora deposto lo stilo” (Miran Košuta).