LUNATICO – Il parco delle utopie realizzate

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Chi attraversa oggi, a piedi o in automobile, il parco di San Giovanni, fatica probabilmente a rendersi conto che per alcuni decenni, nel secolo scorso, l’intero comprensorio è stato quasi per intero luogo di segregazione, tanto oggi il sito appare ridente, aperto e accogliente, con molti dei suoi quaranta edifici restaurati con rigore filologico e con gli spazi verdi che si allargano per gran parte della superficie complessiva di circa venti ettari che, in salita a tratti anche ripida, accompagnano il visitatore a partire dall’ingresso, collocato a valle. L’intero comprensorio è circondato e delimitato da un muro, aperto in basso sulla via San Cilino, da dove parte una strada che lo attraversa in salita fino alla volta che immette sulla via Valerio, la quale, lasciatasi alle spalle gli edifici dell’Università raccolti attorno a quello principale che ospita il Rettorato, si srotola, anch’essa salendo, verso Opicina e il Carso, alle spalle della città di Trieste.

La decisione di edificare in questo luogo il “frenocomio” fu assunta dal Comune oltre un secolo fa, nel 1902, per sanare una situazione di precarietà che, fin dalla seconda metà del secolo XVIII, riguardava le soluzioni logistiche adottate in successione per il ricovero dei malati psichiatrici, che venivano ospitati, quando andava bene, in locali adiacenti – nelle strutture di pubblica carità – a quelli destinati ai poveri, classe sociale particolarmente disagiata che forniva sovente pazienti bisognosi di cure psichiatriche o, più spesso, semplicemente rendeva indistinguibile la demarcazione tra i due ambiti di assistenza. I “pazzi” erano dunque ricoverati in ambienti progressivamente sempre più affollati via via che aumentava il turbinoso incremento demografico della città, diretta conseguenza dell’aumento dei traffici e delle opportunità di lavoro.

La condizione dei malati di mente, nei secoli precedenti al XIX, era a Trieste analoga a quella del resto d’Europa, dove spesso si confondeva nei casi più problematici la condizione dei malati più “difficili” con quella dei criminali, entrambe le categorie a Trieste essendo recluse nel carcere di Piazza Grande. Gli altri, quelli che richiedevano un minor impegno di sorveglianza, erano distribuiti nei vari ospedali di quella che era allora una cittadina: l’ospedale di San Giusto, quello dell’Annunziata e quello di San Lazzaro. Tutti i degenti ospedalizzati furono ricoverati dal 1773 nel nuovissimo edificio del Conservatorio dei poveri e ospedale, costruito per impegno del governo illuminato di Maria Teresa d’Austria nella zona di Via Romagna. Trasformato tale edificio in caserma nel 1785, i ricoverati (definiti dal barone Valentino Pittoni, all’epoca direttore di polizia: “pazzi, mentecatti, ossia scemi di cervello”) furono trasferiti nei locali dell’ex Episcopio di San Giusto, divenuto il primo manicomio triestino, dove, soltanto nel 1831, furono raggiunti dai ricoverati nelle vecchie prigioni, in ossequio a nuove teorie che avevano preso piede in tutta Europa principalmente ad opera di Philippe Pinel (1745-1826), innovatore nella psichiatria, che affermava la necessità di separare i folli dalle altre categorie di emarginati.

Nel 1884, quasi quarant’anni dopo l’inaugurazione dell’Ospedale Maggiore, venne istituita al suo interno quella che era destinata a diventare nota come l’Ottava Divisione, per la cura di malati di mente, ricordata anche in una popolare canzone in dialetto. Tale duplicazione dei luoghi di degenza psichiatrici trovava la sua ragione nella progressiva insufficienza delle strutture che dovevano far fronte alle esigenze di un sempre maggiore incremento demografico, tale per cui negli anni immediatamente successivi alla metà del secolo si era cercato, anche sollecitando l’apporto delle regioni contermini, Istria e Isontino, di costruire un nuovo ospedale.

A questo scopo, verso la fine dell’Ottocento, si costituì una commissione di specialisti per verificare quali fossero gli orientamenti costruttivi in Italia, in Austria e nel resto d’Europa. Risultò così che quasi ovunque tali orientamenti andavano nel senso di una struttura unica, il cosiddetto “monoblocco” per ospitarvi il manicomio, ma la scelta triestina andò a parare altrove.

Nelle fasi che precedettero la progettazione esecutiva del nuovo complesso ospedaliero prese forma una prima utopia, quella di edificare un complesso che abbandonasse la struttura dell’ospedale-carcere, limitandone al minimo le caratteristiche, ma prendendo a modello le esperienze più avanzate, rispettose delle prime timide aperture circa la condizione dei malati, coerentemente con le più recenti indicazioni in campo psichiatrico. Si finì così per dar corpo a una struttura ospedaliera policentrica, articolata in una serie di padiglioni destinati ad ospitare i degenti secondo una distribuzione che tenesse conto delle differenti tipologie di malati e che, in generale, concedesse loro una relativa libertà di movimento, collocando tra l’altro le costruzioni in un contesto gradevole di verde che favoriva attività all’aperto.

Come s’è detto, il Consiglio comunale votò nel 1902 la delibera che approvava il progetto di massima dell’ingegner Lodovico Braidotti; il progetto esecutivo era pronto nel 1904 e l’ospedale, ovvero il “Civico Frenocomio di Trieste” entrò in funzione nel 1908, essendo inaugurato il 1 novembre di quell’anno. I vari edifici comprendevano, oltre alla direzione, una stazione di osservazione con 70 posti letto, un padiglione agitati da 100 posti, uno per “sudici e paralitici” (oggi diremmo non autosufficienti) da 70 posti, un padiglione per “tranquilli” da 200 posti e due ville per paganti di prima e di seconda classe, da 40 posti. Era naturalmente prevista una chiesa, attorno alla quale si articolava il Villaggio del Lavoro, che comprendeva una serie di edifici progettati in stile rustico.

La città poteva vantarsi, con il frenocomio costruito con così lungimirante qualità urbanistica e architettonica, di una struttura capace di fornire assistenza psichiatrica secondo le più moderne concezioni dell’epoca, realizzando così l’utopia cui si mirava in fase di progettazione.

Non era tuttavia abbastanza, per quanto attiene alla vita dei ricoverati, la maggior parte dei quali coatti, ma anche per l’ospedale, passato nel 1924 sotto la guida della Provincia, che perdurava nella concezione di separatezza dal tessuto urbano circostante, dal quale era tenuto diligentemente separato, mentre al suo interno le terapie, quando non ci si limitava alla semplice osservazione del paziente, assumevano spesso connotazioni violente e coercitive, consentite se non incoraggiate da un’istituzione repressiva e autoreferenziale. Negli anni Trenta, limitato l’uso di strumenti di contenzione fisica dei ricoverati, avevano però preso piede pratiche ad applicare terapie che appaiono oggi raccapriccianti, quali l’elettroschock, l’insulinoterapia, la malarioterapia e la lobotomia. Scrive inoltre Peppe Dell’Acqua: “Dallo studio degli archivi del tempo è emerso che molti pazienti scrivevano a parenti e amici, ma nella maggior parte dei casi le lettere non venivano spedite. Inoltre le visite erano strettamente regolamentate e si svolgevano attraverso un parlatorio. Il manicomio rappresentava insomma uno spazio separato dal resto del mondo, un contenitore atto a delimitare nettamente il confine fra normalità e follia”.

L’arrivo di Franco Basaglia, nell’estate del 1971, coincide con l’avvento della nuova e più importante utopia, che certo eccedeva di molto i limiti della struttura fisica dell’ospedale, per allargarsi a una diversa e rivoluzionaria concezione della salute mentale e della società, dando luogo a trasformazioni epocali favorite dall’appoggio politico da parte dell’amministrazione provinciale, la cui Giunta di centro sinistra era guidata da Michele Zanetti.

Con la direzione di Basaglia, che si fa affiancare da un’equipe di giovani collaboratori, vengono applicate nuove regole terapeutiche, organizzative e di comunicazione, cessano le contenzioni fisiche e le terapie di shock.

Sulla base delle esperienze maturate a Gorizia, dove Basaglia aveva operato nel decennio precedente, si prestò attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni, si organizzano assemblee di reparto e plenarie, la vita dell’ospedale si aprì a feste, gite, laboratori artistici, venne meno la separazione coatta fra uomini e donne degenti, e finalmente si aprirono le porte dei padiglioni e i cancelli dell’ospedale.

La realizzazione di quella seconda utopia proseguì a tappe forzate, aprendo sempre di più l’ospedale, iniziando a porre le basi per un’assistenza psichiatrica sul territorio, coinvolgendo le famigliee iniziando, prima ancora dell’approvazione della legge 180/78, a istituire i Centri di salute mentale esterni rispetto al comprensorio dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale, con l’obiettivo dichiarato di decretarne la chiusura, che infatti interviene il 21 aprile 1980, per deliberazione del Consiglio provinciale. Nel novembre del ‘79, Basaglia aveva lasciato la direzione di Trieste a Franco Rotelli per trasferirsi a Roma, ma morirà il 29 agosto dell’anno successivo nella sua casa di Venezia.

Già nel maggio del 1979 la Giunta provinciale aveva approvato una delibera quadro, intitolata:“Determinazioni in merito alla destina-zione dei padiglioni e degli edifici del Comprensorio di S. Giovanni”che prevedeva lo scorporo dei padiglioni dell’OP e il loro riutilizzo o “ riconversione” in servizi destinati alla città”, ma successivamente alla chiusura dell’OPP, in un quadro politico amministrativo generalmente avverso alla riforma di Basaglia, molte parti del comprensorio vennero abbandonate a se stesse e si assistette per anni a un rapido degrado delle costruzioni lasciate vuote e del parco, che cadde in tal modo in uno stato di degrado.

La terza utopia che si è realizzata in questo spazio è quella del suo ripristino estetico e funzionale, che finalmente ha restituito appieno, grazie agli interventi dell’Azienda Sanitaria, dell’Università degli Studi e della Provincia questa grande area di pregio alla fruizione della città, anche attraverso manifestazioni aperte al pubblico, come il “Lunatico festival” al quale abbiamo dedicato questo “speciale” del Ponte rosso.

Walter Chiereghin

 

Volumi consultati:

Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, Edizioni Bruno Mondadori, Milano 2001.

Peppe Dell’Acqua, Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi, con la collaborazione di Luciano Comida, Maristella Cannalire, Kenka Lekovich, Editori riuniti, Roma 2003, indi, III edizione: Feltrinelli, Milano 2011.

Diana De Rosa et al., L’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste: storia e cambiamento 1908/2008, Electa, Milano 2008.

Franco Rotelli (a cura di), L’istituzione inventata / Almanacco Trieste 1971/2010, Edizioni Alpha Beta, Merano 2015.

 

 

Foto di Claudio Ernè, Franco Basaglia e Dario Fo