L’uomo delle immagini

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Intervista a Claudio de Polo Saibanti, presidente della Fratelli Alinari

di Walter Chiereghin

 

 

L’appuntamento è in un appartamento adibito ad ufficio sulle Rive, proprio dirimpetto al Salone degli Incanti; entrando, si ha l’impressione di essere nell’area inibita al pubblico di una grande biblioteca, con i muri ricoperti da scaffali colmi di libri. Nello studio del presidente della Fratelli Alinari, Claudio de Polo Saibanti, ancora scaffali, ancora centinaia di volumi alle pareti, le finestre che si aprono sull’architettura semanticamente fuorviante di Giorgio Polli, che edificò una pescheria in forma di chiesa, ma lo sguardo subisce il magnetismo che promana da una fotografia in bianco/nero incorniciata, un magnifico ritratto di Leonor Fini giovane, al cavalletto. Sembra, questa prima forte impressione, la metafora di una vita, spesa tra cultura e fotografia, la pittrice che richiama una Trieste d’anteguerra, dinamica e purtroppo smarrita, ma anche il grande volo nel mondo, la dimensione europea e cosmopolita tanto della Fini che si stabilisce a Parigi, quanto di una città che è stata una capitale di cultura e sembra oggi smemorata dei suoi trascorsi splendori.

 

Commendator de Polo, cos’è, oggi, la Fratelli Alinari, cioè a dire la più antica raccolta di materiali fotografici sicuramente d’Italia, ma probabilmente anche d’Europa?

L’Alinari è la più antica azienda del mondo, fondata a Firenze nel 1852; le lastre che venivano impressionate dai tre fratelli Alinari non sono mai state buttate via, e quindi si è ben presto costituito un archivio, poi l’archivio è diventato un museo, che a sua volta ha continuato ad ingrandirsi, aprendosi anche ad altri importanti contributi, dal momento che alle immagini eseguite dagli Alinari, che pure, con centoventimila lastre, costituiscono il più grande corpus di lastre fotografiche che ci sia al mondo, si sono affiancate negli anni numerose altre collezioni. Sotto la direzione di Vittorio Cini, l’azienda aveva acquisito i più importanti archivi di negativi sull’arte italiana, concentrando a Firenze un patrimonio unico per la Storia dell’Arte, che ammontava ad oltre duecentomila lastre. Quando io, all’inizio degli anni Ottanta, presi in mano l’azienda, ho continuato l’attività di raccolta, acquisendo ulteriori archivi e portando il numero dei negativi e delle fotografie da duecentomila a cinque milioni, tra cui le lastre sono oggi oltre un milione e duecentocinquantamila. Ma da un certo punto di vista non ha importanza distinguere tra lastre e pellicola fotografica: quel che alla fine conta, dal punto di vista della capacità di documentare, sono le immagini raccolte e opportunamente catalogate. Tutto questo, oltre all’attività espositiva ed editoriale, colloca l’Alinari ai primi posti nel mondo per quel che concerne la raccolta e la gestione di archivi fotografici.

Veniamo a Trieste, dove lei ha assunto l’iniziativa di fare qualcosa di originale, innovativo e anche di notevole interesse, sotto il profilo culturale…

Ho voluto creare qui il Museo dell’Immagine, dopo quello della Fotografia che avevamo realizzato a Firenze. È in effetti qualcosa di fortemente innovativo, che siamo riusciti a realizzare perché esistono oggi i presupposti tecnologici per poterlo fare. Senza assolutamente ritoccare o modificare in alcun modo la fotografia originale, che viene rigorosamente rispettata, possiamo oggi mettere in evidenza dei particolari o arricchire con altri contenuti quanto essa intende rappresentare. Così il visitatore è messo nella condizione di arricchire l’informazione che gli proviene dalla visione dell’immagine con altri suggerimenti, per esempio la lettura di documenti scritti, o la registrazione di suoni e voci che completano il contenuto dell’immagine con altri che ne costituiscono il corollario, in modo da far percepire meglio a chi osserva la fotografia il contesto storico e culturale nel quale essa è stata scattata.

Il tentativo che s’intende fare è quello insomma di “documentare” l’immagine?

Esattamente. Ad esempio lei la Seconda guerra mondiale l’ha vista soltanto in fotografia oppure al cinema, in film magari ben fatti, ma riguardanti il più delle volte personaggi inventati, invece, grazie alla multimedialità lei potrebbe leggere i programmi dei giapponesi e quelli degli americani, lo svolgersi tattico di una battaglia sul terreno ed ogni altro contenuto disponibile.

Viene cioè contestualizzata in qualche maniera l’immagine che uno si trova davanti…

Proprio così.

Io trovo che questa vostra iniziativa, oltre ad avere un innegabile contenuto culturale, sia anche informata ad un principio democratico, nel senso che consente anche a persone di media cultura di avvicinare in maniera più piena i temi affrontati dalle immagini che proponete al visitatore.

Vede: di fronte a un quadro di Rembrandt non occorre aver fatto l’università. Lei è talmente piccolo davanti a quel quadro che è talmente grande che o lo capisce o non lo capisce, a prescindere dagli studi che ha fatto. Per la fotografia non è la stessa cosa: di fronte all’immagine drammatica di Berlinguer sul palco dove tentava di portare a compimento il suo ultimo discorso, se non sa chi era l’uomo fotografato, come mai è stato colto dall’obiettivo con quella smorfia in viso, cos’è accaduto prima e cosa pochi minuti più tardi, perde gran parte dei contenuti che l’esposizione della fotografia intende veicolare. La multimedialità consente di aiutare a comprendere quanto, nell’immagine fotografica, per forza di cose, non può essere documentato.

Questa sua iniziativa triestina mi pare sia la prima in Italia, dopo quelle analoghe di Londra e Parigi e dovrebbe quindi costituire un forte richiamo a livello quantomeno nazionale…

Anche internazionale, in effetti. Poi, dipende anche da quel che il Comune intende fare per aiutare la comunicazione del Museo, che attualmente non mi sembra molto. La biglietteria del Castello, per dirne una, chiude per otto mesi all’anno ad orari impossibili, impedendo di fatto l’accesso alle persone che lavorano.

Qualcosa andrebbe anche fatto per migliorare l’accessibilità: per un disabile, anche lievemente disabile, è in pratica impossibile raggiungere il Museo. Nemmeno un ascensore…

Per la verità l’ascensore c’è, dal piazzale delle Milizie al nostro livello, ma non lo mettono in funzione, e poi ci sono problemi generali di accessibilità al Castello, l’assenza di un bus navetta, il mancato o limitato accordo per l’ascensore del parcheggio cui si accede da Via del Teatro Romano, l’inesistenza di segnaletica… per queste ed altre ragioni, sono costretto a ritenere che il Museo non riesce ad esprimere ad oggi tutte le sue potenzialità. Mi auguro di non aver sbagliato città.

Ma a lei è venuto in mente di collocare il suo Museo a Trieste perché è triestino?

Certo, perché sono triestino, ma anche perché a Trieste avevo già fatto sorgere il Museo della Comunità ebraica “Carlo e Vera Wagner”, avevo già deciso di donare la biblioteca dei miei genitori, come ho poi fatto, non al Comune, viste le condizioni della Biblioteca Civica, ma alla Biblioteca del Seminario. Il terzo intervento era questo del Museo dell’Immagine, valendomi anche della disponibilità della Regione, che per mezzo di una sua legge impegnava se stessa a finanziare la creazione della struttura, ma impegnava altresì il Comune ad individuare e mettere a disposizione adeguati spazi per la realizzazione del Museo.

Già, perché c’è da dire che, benché si tratti di una realtà molto giovane, la storia del Museo ha alle spalle un lungo periodo di tempo, in gran parte speso per una vicenda giudiziaria che, alla fine, si è conclusa per lei con un’assoluzione piena.

Si è trattato difatti di una vicenda allucinante che è durata anni ed anni, ma che alla fine si è conclusa con cinque parole: “assolto per insussistenza del fatto”. La sede non era più quella che era stata pensata all’inizio, ma siamo arrivati alla fine, dopo che io avevo promosso una causa al Comune di Trieste – sindaco Cosolini – per inadempienza, ad un accordo sottoscritto con la precedente amministrazione. Avevamo anche stabilito dei tempi, in quell’accordo, che noi abbiamo ampiamente rispettato. Pensi che un anno fa mi è stato chiesto da parte del Comune di inaugurare entro cento giorni e sono riuscito a farlo, ma da allora, per quanto riguarda l’impegno dell’amministrazione pubblica, non ho visto nulla, a cominciare dalla segnaletica, che possa definirsi attività promozionale del Comune in favore del Museo, che pure dovrebbe costituire uno dei punti di forza dell’offerta culturale della città.

Capisco appieno la sua personale frustrazione per l’insipienza dei suoi interlocutori in Comune, ma non mi dirà per caso che ha in testa un “piano B” per quel che riguarda le attività del museo triestino?

Nessun “piano B” vero e proprio, ma è di tutta evidenza che allestire mostre importanti e di notevole richiamo, quali quella di Robert Capa, che attualmente è allestita, costa molto; certo non quanto quella di Vittorio Sgarbi che è ospitata al “Salone degli incanti”, ma comunque costa, in termini di diritti di copyright, di promozione, di allestimento e stampa del catalogo e così via. Se gli ingressi continueranno a dare risultati insoddisfacenti, è chiaro che dovremo ripiegare su opzioni meno costose, valendoci dei materiali di cui direttamente possiamo disporre, che comunque non sono pochi, dato che il Museo è costituito da un database di cinquantamila immagini e può contare su un patrimonio di cinque milioni di fotografie.

Il Ponte rosso esprime una critica piuttosto serrata sia nei confronti di questa amministrazione che di quella che l’ha preceduta, per quanto riguarda la promozione della cultura…

E fa bene, perché credo che la città è fortemente carente sotto questo profilo. Che poi Sgarbi affermi, in un’intervista debolmente e parzialmente smentita, che l’attuale assessore è utile perché sa come appendere i quadri alle pareti è un affronto che la città non si merita.

Questo è rivelatore di una mentalità che vede la cultura soltanto sotto il profilo del ritorno economico, il che consente che la Civica, per parlare di biblioteche come lei ha prima accennato a fare, da nove anni custodisce i propri libri in tre ubicazioni diverse, per cui quando vado a chiedere un volume non so mai se e quando potrò disporne, e tutto nell’indifferenza del personale politico che ha competenza in materia.

È anche per questo che ho fatto la mia donazione alla Biblioteca del Seminario: si tratta di migliaia di volumi che sono già ora fruibili da parte dell’utenza e che non avrei voluto vedere accantonati nei cartoni di un deposito.

 

Penso che abbia fatto benissimo, e del resto de Polo ha degli illustri predecessori in materia. Penso per esempio alla collezione De Pisis della signora Malabotta che è finita a Ferrara perché qui qualcuno ha affermato che il museo non aveva spazio per esporre tutte le opere. Opere, va da sé, che sono esse stesse un museo per quantità e qualità.

 

Intervista rilasciata il 19 giugno 2017