Notti di battaglia

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di Giuseppe O. Longo

 

La signora Carmen era una bella mora sui venticinque anni, di cui alla mia età non potevo apprezzare le attrattive erotiche, ma certo ammiravo quelle estetiche, a cominciare dai capelli, neri, lunghi e mossi come bisce, e dal viso, espressivo e drammatico quando non rideva, traversato nel suo pallore dalla ferita rossocupo della bocca. E quando rideva arrovesciava il capo all’indietro e la gola le si gonfiava e palpitava come una tortora. Era sposata a una guardia giurata, che una volta al mese faceva la notte. Io aspettavo quell’occasione con impazienza, perché la signora aveva paura di restare sola e aveva chiesto a mia madre di lasciarmi dormire con lei per farle compagnia e mia madre non aveva avuto da obiettare. Dormire non è il termine esatto perché le notti che passavo con la signora erano movimentate e turbolente: io, a dieci anni, non vedevo l’ora di sottrarmi all’occhiuta vigilanza dei miei per scatenarmi, e lei tornava bambina. Salivo al suo appartamentino verso le otto, col mio pigiama sotto braccio, e la trovavo già in camicia da notte che si spazzolava quei capelli fatati che subito io le scompigliavo provocando un rimprovero che non era un rimprovero, piuttosto una resa gorgogliata a quella che per un paio d’ore almeno sarebbe stata la nostra battaglia. Mi spogliavo e indossavo il pigiama, la signora mi osservava sorniona e appena avevo finito mi tirava un cuscino. Io mi mettevo a ridere, perché la vedevo infervorata e serissima, come se non fosse un gioco, e quel riso mi toglieva tutte le forze, sicché la signora Carmen prendeva il sopravvento, mi gettava sul letto, un letto sterminato, morbidoso, in cui affondavo con un senso di annegamento e di abbandono. Ma subito mi riavevo e la minacciavo, non crederai di vincere, tu sei una donna, quindi io vinco perché sono un uomo, lei rideva, scoteva il capo e mi faceva il solletico in faccia con quelle ciocche nerissime e selvagge. Le tiravo un cuscino, poi la strattonavo cingendola per la vita, lei si divincolava e mi colpiva a sua volta. Andavamo avanti così per un bel po’, io mi divertivo un mondo, non mi pareva vero che una donna giocasse con me con quell’impegno e quella serietà e anche la signora Carmen aveva dimenticato la sua età, la sua condizione di donna sposata e ripensandoci adesso, a distanza di tanti anni, mi rendo conto che era per lei un modo per uscire dalla plumbea esistenza cui la costringeva la guardia giurata, un tipo basso e robusto, con i capelli già brizzolati e, particolare ributtante, un occhio quasi del tutto bianco come un uovo alla coque. Ma scacciavo subito quel pensiero molesto e tornavo ai giochi con la bella Carmen. Ridevamo e combattevamo come due monelli, finché lei diceva, adesso basta, dormiamo. Ma io ero troppo eccitato e di dormire non avevo nessuna voglia. Le trattative si prolungavano per un bel po’, Carmen faceva la sostenuta, mi parlava come si parlerebbe a un adulto, cercava di blandirmi, di far leva sulla mia presunta serietà, minacciava di raccontare tutto a mia madre o, peggio ancora, di non chiamarmi più a dormire con lei. Non so a che ora cedevo più al sonno che alle sue parole e mi ritrovavo il mattino in quel lettone, dentro un groviglio di lenzuola, circondato dai cuscini della battaglia, la signora dormiva ancora, mi avvicinavo cauto, le tiravo i capelli e la svegliavo. Mi abbracciava e sentivo il suo calore notturno pervadermi: era il momento più bello di quei nostri incontri, tutto era giusto e pacificato. Andavo in bagno, mi rivestivo, scendevo a casa mia, facevo colazione e mi preparavo per andare a scuola. Tutto il giorno era segnato dalla luminosità della notte passata con la signora Carmen. Ora che sono adulto, quasi vecchio, ogni tanto la incontro, ma lei non mi riconosce. Ha avuto una vita difficile con la guardia giurata, che l’ha ingravidata più volte. Due gemelle coi capelli crespi e gli occhi da passero, una bambina sveglia e dispettosa, un ragazzone disabile che lei si porta dietro come a scontare quelle gioiose battaglie a colpi di cuscino.