Pinocchio in redazione

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di Fulvio Senardi

 

Che il giornalismo, e non solo italiano, risponda ormai troppo spesso a necessità di ordine propagandistico (o è sempre stato così e non ce n’eravamo accorti?), dove la deontologia di un’informazione corretta si piega all’esigenza di deformare la realtà con finalità di polemica o proselitismo politico, è un dato che molti ammettono, ma che raramente ha avuto la conferma di puntuali verifiche fattuali (penso al modello di No comment – L’organizzazione del consenso nella stampa britannica, il Saggiatore, 1978, di Stefano Magistretti, che fa il contropelo a testate giudicate indiscutibili e che – strano no? – non ha avuto emuli relativamente alla stampa italiana).

Chi scrive si è divertito a compiere un’analisi accurata ancorché selettiva sul numero di giovedì 7 febbraio del quotidiano La Repubblica (con lo scopo di rendere più chiaro, grazie al nero su bianco, ciò che il lettore avvertito probabilmente percepisce). Avremmo potuto optare per un altro giorno (la scelta è stata casuale) e per un altro quotidiano nazionale ma il “vantaggio” di una lettura della Repubblica, rappresentativo di molta parte della stampa italiana, è la sua chiara collocazione politica, a fianco del PD e con nostalgie renziane, e l’altrettanto chiara struttura proprietaria (il gruppo GEDI), che vede in primo piano la famiglia De Benedetti, a guida di una cordata dove spiccano nomi importanti del capitalismo italiano (fra i quali gli Elkann). Oltre al fatto, naturalmente, che Repubblica (diffusione cartaceo-digitale in diminuzione: attualmente poco più di 200.000 copie) è stato per decenni l’espressione di un fronte progressista e un faro (anzi, un opinion-maker) della cultura di “sinistra”, tanto che i critici hanno addirittura parlato di giornale-partito: una porzione di storia, insomma, per coloro il cui cuore è ancora un po’ rosso, ma giornale che è diventato, sotto la guida del direttore Calabresi, una pedina importante per l’organizzazione del consenso rispetto a politiche di taglio neo-liberista. Questa la “mission” del gruppo cui appartiene (fonte: Homepage Internet di GEDI): “Il Gruppo GEDI, tramite i propri mezzi, è impegnato a offrire informazione, cultura, opinioni e intrattenimento secondo principi di indipendenza, libertà e rispetto delle persone, nella consapevolezza di avere una grande responsabilità nella formazione di valori etici e morali del proprio pubblico”.

Partiamo dunque dalla prima pagina, dove subito colpisce un titolo ad effetto: L’Italia che fa paura al mondo. Spiega Francesco Manacorda: “Italia contro il resto del mondo è una partita che ormai non si gioca solo in politica estera, ma anche nel campo dell’economia. E il resto del mondo, come ha spiegato ieri il FMI, ci teme.” Dunque, chi rabbrividiva pensando alle atomiche di Kim il Coreano, ai Jihadisti, alla polveriera medio-orientale, a Trump in procinto di attaccare il Venezuela, al gruppo di Visegrad con la sua particolare concezione della democrazia senza divisione dei poteri, ecc. ecc. ecc., può dormire sonni tranquilli: l’apocalisse ha piuttosto il volto del debito pubblico italiano. E a dirlo è quel FMI, nido dei più accaniti liberisti, che qualche tempo fa ha pronunciato un sonoro mea culpa per come ha gestito la crisi greca ma che sta riproponendo la stessa cura per la Tunisia. A parte ciò, e più in generale, possiamo ancora osservare che non è solo Salvini, il nuovo mangia-bambini (neri preferibilmente), a diffondere paure per un evidente tornaconto politico (l’accusa spesso lanciata contro di lui, e non a torto, anche dalla testata di cui parliamo), ma anche, guarda guarda, i giornalisti di Repubblica. Salvini agita lo spauracchio dell’invasione africana (che non c’è stata, tranquillizzatevi), Repubblica quello della crisi economica, dell’impoverimento, della “fame” (curioso per un Paese che, nonostante i milioni di poveri, si colloca nelle prime posizioni al mondo per ricchezza detenuta dalle famiglie: meglio di Francia, Germania, Spagna, dati OCSE). Ma, si sa, il rischio è quella patrimoniale (IMU prima casa, ecc. ecc.) che da noi non si è voluta mai fare, prospettiva che non piace ai Parioli o in via Montenapoleone, e quindi terrorizza Repubblica (siamo ancora a sinistra?). In sintesi: due modi diversi di far paura. Salvini parla alla pancia, Repubblica al portafoglio.

Ma continuiamo la riflessione: spunta quasi una lacrimuccia per questa povera Italia “contro il resto del mondo in politica estera” nella narrazione di Manacorda. Come fa a non capire la saggezza della linea USA-Francia-Germania (ecc. ecc.) che, ascoltando il grido di dolore del popolo venezuelano, vorrebbero Maduro via subito e incondizionatamente, come vollero (Germania esclusa) per Gheddafi e Saddam Hussein (con i risultati che sappiamo)? Ed è poi veramente tanto sola l’Italia nella linea, per ora vincente, di parte del governo che sostiene la linea di non ingerenza ma è pronto ad offrire una sponda di garanzia e mediazione ai due contendenti? L’ONU, papa Francesco, il Messico, l’Uruguay e qualche paese europeo condividono questa scelta. Defilati, partigiani (probabilmente perfidi, fa capire la stampa del “mondo libero”) ma comunque distanti da Trump, la Russia e la Cina. In questo caso Mr Hyde-Salvini diventa il buon dottor Jekyll, ed ha il plauso di chi lo fischiava prima. Il buonsenso sarà ovviamente perdente e fra un paio d’anni qualcuno verserà lacrime di coccodrillo sulla guerra civile venezuelana fomentata da potenze straniere per amore del suo popolo. Ai vincitori, naturalmente, il petrolio.

Nella gran crisi del Paese che fa paura al mondo, c’è però una piccola ragione di ottimismo, una zattera cui affidarsi: lo spiega Ettore Livini, a pagina 18 di “Economia e finanza”. È il miracolo “Autostrade”. “Uscita dai fari della cronaca la tragedia del Ponte Morandi” e le polemiche per l’Autobrennero bloccata, le autostrade italiane in concessione si confermano splendida occasione per gli investitori e per lo Stato, cui va “una fetta del tesoretto raccolto ai caselli”. Le magnifiche sorti e progressive di questo miracolo de noantri, così come lo racconta, senza un filo di ironia o qualche minima presa di distanze, il turibolante articolo dell’entusiasta Livini, riguardano anche il tema della sicurezza, “più circolazione meno i morti” (a meno di non trovarsi nel momento sbagliato su un viadotto con i tiranti marci, come direbbe qualcuno perfidamente). Insomma vien voglia di innalzare un osanna ad “Autostrade per l’Italia” e alla dinastia Benetton. Emblematici, in realtà, delle schiere del capitalismo furbetto (fratello gemello del capitalismo finanziario). Non produce nulla (salvo profitti), tanto meno posti di lavoro (se non in quantità minima), riceve in concessione dei beni pubblici (autostrade, spiagge, etere), ne garantisce la fruibilità e l’efficienza, e incassa dall’utente una tariffa. L’astuzia, parliamo di autostrade, è quella di pagare meno possibile lo Stato e alzare quanto più possibile i pedaggi (risparmiando se possibile su controlli e manutenzione). È un capitalismo che ha bisogno di governi amici, per evitare che si bandiscano delle gare per l’assegnazione delle concessioni, e pronti a sottoscrivere clausole capestro nel caso che, mutato il clima politico, un diverso governo voglia rescindere il contratto. E che ha bisogno di una voce che influenzi l’opinione pubblica per far credere che il mondo-Benetton o il mondo-Berlusconi (qui siamo all’etere) sia il migliore dei mondi possibili. Un Livini si trova sempre. E anche qualche giornale. Basta “comprarlo”.

A pagina 2 altra scommessa dell’Italia buona, che non mette paura ma cui gli incompetenti nel governo (dove siede per fortuna anche un partner sensibile all’importanza delle Grandi Opere), si ostinano a voltare le spalle: la TAV. A rendere più chiara la bellezza del progetto il disegno di un convoglio ad alta velocità. Elegante filante rosso. Peccato che si tratti, con tutta evidenza, di un treno passeggeri; e, come si sa (oppure no? Le interviste concesse dalle Madamine torinesi potrebbero farlo sospettare), la Torino-Lione prevede esclusivamente una linea merci. Utile per farci arrivare il camembert qualche minuto prima che su binario normale, su uno di quei treni che, viaggiando mezzi vuoti, collegano a Occidente la Francia e l’Italia. Ma utile anche al Paese nel suo complesso? L’Italia “che fa paura”, spiega Anais Ginori da Parigi sulla stessa pagina del forza-TAV (la giornalista scrive poche ore prima che Macron ritirasse il suo ambasciatore da Roma: manderà in seguito i Parà, come fa con parecchi Paesi africani?) alimenta anche il conflitto diplomatico oramai endemico con la sorella latina. L’Italia è sola (e cattiva) per colpa del suo governo. Cosa si sono sognati i Cinquestelle di recarsi a Parigi per incontrare alcuni capi-popolo dei Gilets Jaunes? Non hanno colto il complimento implicito del presidente Macron nella parola “lebbra” rivolta, al suo insediamento, al Governo italiano? E la gratitudine per aver tenuto per decenni in territorio francese, a rischio e pericolo della Grande Nation, dei terroristi italiani condannati per fatti di sangue (non per reati d’opinione), e, storia recente, riportato con la forza entro i confini del Bel Paese dei migranti smarritisi sulle Alpi dalla parte francese? Naturalmente l’articolo tutto umorale sull’ “ira francese”, tralascia di dire ciò che andrebbe spiegato. Ovvero che popolari e socialisti nel Parlamento europeo si apprestano a varare un regolamento che renderà più difficile costituirsi in gruppo autonomo, e quindi la necessità vitale, per chi ne ha l’ambizione e non fa parte delle grandi famiglie politiche europee né si rassegna a sedere a destra, di trovare, magari con manovre sciaguratamente maldestre, degli alleati (che, come nota VoteWatchEurope sarebbero da individuare a sinistra o nei verdi, per affinità di voto, da parte dei Pentastellati). Del resto si avvicinano le elezioni europee, cruciale banco di prova: Macron e i 5Stelle hanno bisogno di un nemico. Per Macron l’infida Italia (ma che pure ha permesso ai francesi di fare 52 miliardi di shopping negli ultimi dieci anni acquisendo aziende italiane senza mai ricorrere al mezzuccio della statalizzazione – cfr. invece il caso dei cantieri di Saint Nazaire -, 7 volte quanto gli italiani oltr’Alpe, fonte: Sole24ore) e per i 5stelle la Francia del globalismo finanziario. Conflitto reso più partecipato da due esponenti emotivi: il complesso di superiorità dei francesi, quello di inferiorità degli italiani. Non problematizzare con intelligente distacco questo contesto e alzare, con la bava alla bocca, uno dei due tricolori, significa falsificarlo mentre si finge di informare.

Chiudo il lungo discorso: il problema di Repubblica, come di molta stampa del Paese che fa paura al mondo, è di essere servitore di due padroni, in innegabile (ma sottaciuto) conflitto di interessi tra esigenza di offrire un’informazione oggettiva e affidabile, e ossequio alle strategie e agli interessi della proprietà. Giornalismo “spurio” perché gravato di pesantissime ipoteche economico-politiche. La soluzione? Leggere di più, più a fondo e più testate (magari con un occhio all’estero: tutto si trova on line), acquisire l’abitudine a confrontare e verificare le notizie, privilegiare la stampa che non si sporca con i soldi ma piuttosto con le idee, guardare con sospetto a chi si scaglia contro presunte fake-news, accertandosi invece che non ne sia piuttosto una fonte, sondare le “verità” che i giornali ci propongono per capire se dietro non si celi qualche finalità inconfessabile (l’umano, troppo umano di Nietzsche).