Ricordo di Piergiorgio Branzi

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di Michele De Luca

 

«Preferisco il bianco e nero perché negli anni Cinquanta, quando ho cominciato, il colore era una costosa curiosità. Ma anche perché noi toscani consideriamo il disegno l’etica stessa di ogni espressione figurativa», Sono parole di Piergiorgio Branzi (Signa, Firenze, 1928) che ci ha lasciato il 28 agosto all’età di novantaquattro anni, giornalista e volto storico del TG1, corrispondente prima da Parigi e poi da Mosca (dove il suo obiettivo esplorò la quotidianità di una società, allora misteriosa e certamente poco nota), oltre che grande fotografo. Piergiorgio Branzi aveva iniziato l’attività di fotografo nei primi anni Cinquanta conoscendo Vincenzo Balocchi, Giuseppe Cavalli, Mario Giacomelli e il gruppo de “La Bussola”, associazione creata nel 1947 con l’obiettivo di promuovere la fotografia come autonoma e originale forma d’arte. Branzi espose per la prima volta nel 1953, all’interno della collettiva “Mostra della Fotografia Italiana” alla Galleria della Vigna Nuova a Firenze, per poi partecipare alle principali esposizioni italiane e vincere diversi concorsi nella seconda metà degli anni Cinquanta. Nel 1955 intraprende un viaggio in motocicletta, attraverso le regioni del nostro Meridione, ma anche verso le zone depresse del Veneto. Fondamentale la sua collaborazione all’esperienza editoriale de Il Mondo di Pannunzio, (insieme, come ha ricordato Ermanno Rea, a «quel branco di ombrosi e selvatici campioni del nostro nomadismo fotografico») registrando con le sue foto l’esplodere della società di massa, i riti della emergente borghesia e del consumismo.

Nel 2015, quasi a voler riepilogare tutto il suo percorso fotografico, usciva il bel libro Il giro dell’occhio, il quale raccoglieva più di mezzo secolo di immagini che lui amava chiamare “osservazioni attive”, in cui si compendiava il suo lavoro di grande testimone e interprete del nostro tempo. Le sue immagini si intrecciavano con riflessioni, ragionamenti, ricordi di una stagione importante della fotografia e della cultura italiana, in cui la scrittura con la luce, per l’impegno dei suoi protagonisti, coniugava nello stesso tempo uno sguardo critico e amorevole con la meraviglia e la scoperta di mondi sconosciuti o comunque, per cominciare, più appartati della realtà del nostro paese. Questa visione a trecentosessanta gradi di Branzi ci offriva un vero e proprio turbine di immagini in cui fotografare voleva dire in fin dei conti, come per i tutti grandi fotografi, “guardarsi dentro”, filtrare ciò che si presentava davanti all’obiettivo, attraverso il proprio mondo interiore, la propria esperienza esistenziale e culturale.

Del resto il concepire e praticare la fotografia da parte di Branzi, quella che nel parlare comune potrebbe definirsi la “filosofia” della sua ricerca e del suo lavoro, è ben riassunta da lui stesso quando dice: «Potrà sembrare un’affermazione azzardata ma, a mio giudizio, fotografare è un’operazione compromettente. Compromettente perché quel fondo di bicchiere che conosciamo, e che capta quel lampo di luce che racchiude un frammento di realtà, è rivolto verso l’esterno, ma l’immagine proviene dal nostro intimo più profondo e nascosto: e ci racconta e ci smaschera». Che rimane la giusta chiave di lettura per chi si ponga davanti alle sue splendide foto in bianco e nero, alcune divenute vere icone della nostra società a partire dal dopoguerra.

Come ha ricordato Michele Smargiassi su Repubblica, «delle sue icone celebri, esposte nei musei di tutto il mondo, Branzi non si vantava. Ma mostrava a tutti con divertito orgoglio la fotografia del braccio di un ragazzo che qualcuno gli mandò. Un braccio tatuato, e il tatuaggio riproduceva il bambino con l’orologio di Comacchio. Quell’immagine del tempo che cammina al passo di un bambino non aveva colpito solo la sua, di immaginazione metafisica».

 

Ragazzo con orologio

Comacchio, 1955

©Piergiorgio Branzi