SCENDE LA LUNA E SI SCOLORA IL MONDO

| | |

di Anna De Simone

 

Il tramonto della luna chiude una stagione di poesia durata quanto l’intera vita di Giacomo Leopardi. In questo canto, attraversato da riflessioni filosofiche e da abbandoni del cuore, compaiono i due miti fondanti della sua opera in versi: il primo è quello della luna, presenza misteriosa e consolatoria fin dal tempo dei primi idilli («o cara luna, al cui tranquillo raggio /danzan le lepri nelle selve… », La vita solitaria); dolcezza chiara di paesaggi notturni (La sera dei dì di festa); luce bianca che inonda colline e case («e tornan l’ombre giù da’ colli e da’ tetti / al biancheggiar della recente luna», Il sabato del villaggio); testimone silenziosa ma non ostile del faticoso andare dell’uomo sulla terra («Somiglia alla tua vita / la vita del pastore. / Sorge in sul primo albore, / move la greggia oltre pel campo, e vede / greggi, fontane ed erbe, / poi stanco si riposa in su la sera; / altro mai non ispera», Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Fino al momento in cui la luna scende nel mare «e si scolora il mondo». È l’ultimo tramonto, nei versi e nella vita di Leopardi: con lei sta per scendere verso l’ignoto anche il poeta che l’ha amata e cantata.

Il secondo mito è quello non meno radioso della giovinezza, la sola luce che rischiari, assieme all’amore, il cielo scuro della vita. Come i candidi soles di cui parla Catullo in un celebre carme, dura eterno l’avvicendarsi del giorno e della notte. Diverso è invece il destino dell’uomo («il sole può cadere e ritornare, / ma noi – quando la nostra breve luce / sarà spenta una volta – / avremo una notte soltanto / da dormire infinita», Catullo, V, trad. F. Caviglia). Come ci ricorda Leopardi nei suoi versi di congedo dalla vita:

 

Ma la vita mortal, poi che la bella

giovinezza sparì, non si colora

d’altra luce giammai, né d’altra aurora.

Vedova è insino alla fine; ed alla notte

che l’altre etadi oscura,

segno poser gli Dei la sepoltura.

 

Trieste si è offerta al poeta di Recanati con i suoi incanti e le sue miserie, con il blu del suo mare e la solitudine di un altro poeta, che lo ha seguito da vicino lungo un percorso difficilissimo e altamente drammatico: un viaggio che attraversa la poesia dei Greci e i Canti di Leopardi, ritornato, idealmente, a casa tra i suoi colli, accanto alla luna amica, lungo le viuzze del suo borgo, diventate immense nei versi che le descrivono. Ma Leopardi è un mondo e non può essere imprigionato in nessun luogo, in nessuna definizione. Non si può catturare il sole. Sono qui a dimostrarlo i suoi versi. Con gli ultimi due canti, Il tramonto della luna, su cui vorremmo chiudere questo nostro viaggio, e La ginestra, composti entrambi nel 1836 a Villa Ferrigni (Torre del Greco), si approda al massimo dispiegamento di quello che, con un’espressione di Heidegger, viene definito il “pensiero poetante” di Leopardi.

Il congedo può avvenire con la lettura, o rilettura, degli ultimi sei versi del Tramonto della luna, dettati all’amico Ranieri poche ore prima di morire, versi che racchiudono un percorso lunare simile a un sogno. Risuonano ancora una volta dentro di noi le parole di Alceta: «Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno»: quel sogno per Leopardi finisce quando dalla nostra vita si allontana la giovinezza.

 

Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna

 

Scende la luna e si scolora il mondo;

spariscon l’ombre, ed una

oscurità la valle e il monte imbruna;

orba la notte resta,

e cantando, con mesta melodia,

l’estremo albor della fuggente luce,

che dianzi gli fu duce,

saluta il carrettier dalla sua via;

 

Tal si dilegua e tale

lascia l’età mortale

la giovinezza. In fuga

van l’ombre e le sembianze

dei dilettosi inganni; e vengon meno

le lontane speranze,

ove s’appoggia la mortal natura.

Abbandonata, oscura

resta la vita […]

 

Voi, collinette e spiagge,

caduto lo splendor che all’occidente

inargentava della notte il velo,

orfane ancor gran tempo

non resterete: che dall’altra parte

tosto vedrete il cielo

imbiancar nuovamente, e sorger l’alba […].

 

Bella la giovinezza, ma svanisce troppo presto, come sottolinea con forza l’enjambement (la bella / giovinezza, vv. 63-64), come ci ha detto il poeta stesso nei Canti. La luna sorge e tramonta, ma la vita dell’uomo, quando la giovinezza lo avrà abbandonato, non conoscerà più né la luce né gli incanti di quella stagione irripetibile. Si chiude così anche la grande stagione della poesia leopardiana. Si chiude tra i «cespi solitari» dell’«odorata ginestra, / contenta dei deserti» che avendo pietà delle disgrazie degli uomini, per confortarli, «al cielo / di dolcissimo odor manda un profumo, / che il deserto consola». Ancora una volta quel fiore dell’umana dignità che è la poesia fa arrivare fino a noi la dolcezza consolatoria dei suoi «cespi solitari».

Nelle poesie di Giotti è la luna ad avere pietà delle sofferenze dell’uomo. È simile all’acqua ed è neve sottile e leggera. In una notte di tormento, il poeta l’ha sentita vicina a sé, ha sentito o ha creduto di sentire la sua voce che gli diceva «una bona parola». Quando c’è la luna, la notte non fa paura, e l’io può contemplare il monte, gli orti, gli alberi. L’amicizia dell’astro candido lo ha riconciliato con la vita. A un passerotto Giotti affida il compito di consolare i giorni della solitudine e della disperazione. A un passerotto e alla candida luna.

Leopardi invece questo compito lo affida alla «lenta ginestra» che adorna la campagna arida, al suo profumo, alla sua umiltà, alla sua fierezza. È lei la sola nota di pietà, anzi di pietas, tra i «bollenti ruscelli» e i «liquefatti massi» dell’umana esistenza.

Questa rassegna di poesie dedicate alla luna, questo itinerario che sfiora la classicità, con Alceo e Saffo, ma è stato dominato dal “mito Leopardi” e da Virgilio Giotti, protagonista assoluto del libro, non poteva non chiudersi su una lirica del poeta triestino, che non solo è bella tra le belle, ma è anche un inno alla figlia primogenita, la cara indimenticabile Tanda, qui assimilata alla luna lucente e chiara, che se ne va sola e fiera per le vie del cielo. Una creatura eletta, che le nuvole nere della vita nascondono per un momento, ma che subito dopo torna a farsi vedere. Il suo chiarore arriva fino al poeta, fino a questo padre che in lei e grazie a lei ha trovato la forza di ricominciare a vivere e anche, un poco, a scrivere i suoi ultimi versi e quelli Appunti inutili che sono un libro toccato dalla tragedia, ma sono anche uno dei diari più significativi e originali del nostro Novecento.

 

Virgilio Giotti, Ciaro de luna

 

Penso a le tue man, fia, che le se movi

pianin; a la tua boca, che un fià ridi.

Oh, se podessi averle! Chi saria

più felize de mi? Come la luna

te son ti, fia, che un nùvolo la scondi,

e la vien fora, ècola, slusente;

e el su’ ciaro vien zo fina de mi,

el me toca e carezza, cussì bianco.

Ma ela xe là in alto lontan;

sola la va pal ziel.

 

Chiaro di luna. Penso alle tue mani, figlia, che si muovono / piano piano, alla tua bocca, che un poco sorride. / Oh, se potessi averle! Chi sarebbe / più felice di me? Come la luna / sei tu, figlia, che una nuvola nasconde, / e viene fuori, eccola, luccicante; / e il suo chiarore arriva giù fino a me; / mi tocca e mi accarezza, così bianco. / Ma lei è là in alto lontano; / sola va per il cielo.

 

(*) Per gentile concessione dell’Autrice, riportiamo qui il XIII capitolo del volume Leopardi a Trieste con Virgilio Giotti, Interlinea editore, Novara 2015