“Un amore” di Dino Buzzati

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Leggetelo nell’ora in cui, sì, disapprovate l’errore di Antonio, eppure ne avvertite ancora la possibilità, la vaga seduzione, la trappola ancor tesa

di Luisella Pacco

 

 

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. […] Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.

Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo grigio… […] Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care […] Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che io dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio […].

Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare fortuna.

 

Chi conosce anche solo un po’ Dino Buzzati ha già capito che queste righe non sono tratte da Un amore, il libro di cui voglio parlarvi, bensì da Inviti superflui, un racconto brevissimo, di infinita bellezza e struggente malinconia, inserito nella raccolta La boutique del mistero.

Eppure, anche se non c’entra nulla, non posso fare a meno di ritrovare in queste parole il medesimo sconsiderato e disperato sentimento di Antonio Dorigo, il protagonista di Un amore.

In entrambe le opere, c’è un uomo desolatamente consapevole della siderale distanza che lo separa dalla donna amata. Nessuna comunione di spirito, nessuna comprensione saranno mai possibili. Eppure l’insondabile mistero dell’amore (di quello sbagliato, intendiamoci) esige proprio questo: che non ci siano né ragione né ragioni, che si ami e basta, proprio colui o colei che non potrà mai riamarci, che si ami in spregio di se stessi, quasi per cercare inconsciamente la sofferenza e la condanna che crediamo di meritare.

La genesi del romanzo risale al 1959, quando in Buzzati, forse per un’esperienza personale molto simile, scatta il rovello di questa storia, che vedrà la pubblicazione nel 1963.

La conoscete senz’altro, la vicenda, vero?

Antonio Dorigo, quasi cinquantenne, l’artista ormai quasi celebre, citato internazionalmente, il geniale scenografo, la personalità invidiata, l’uomo immediatamente simpatico, professionalmente soddisfatto dunque e con una discreta vita sociale d’amici e vacanze, nel rapporto con le donne è molto insicuro. Si intimidisce, si blocca, e più desidera mostrarsi disinvolto, più si scopre goffo. Frequenta abitualmente la casa d’appuntamenti della signora Ermelina, dove non serve alcun merito di fascino, dove basta pagare per avere tra le braccia la carne florida e soda di una giovane “maschietta”, senza alcuno strazio di strategie di conquista, di speranze e di delusioni troppo spesso sperimentate.

Un giorno, tra le ragazze che di volta in volta gli vengono offerte, compare Laide, sfacciata, impudente, bugiarda, nemmeno particolarmente bella. Antonio se ne invaghisce in modo assoluto, accettando innumerevoli umiliazioni, menzogne, attese.

Guardatelo, quest’uomo, mentre si fa piccolo stupido mortificato, mentre si fa cagnolino ai piedi e ai comandi di Laide, mentre perde dignità e decoro, mentre diviene lo zimbello di tutti. Guardatelo, mentre passa dalla perpetua volontà di lasciare la ragazza all’ostinazione di volerla, volerla, volerla ancora.

Viene da prenderlo a schiaffi, Antonio, vien da scuoterlo per le spalle con violenza amica, gridargli negli occhi: basta, basta così.

Curiosamente, tutte le persone con cui ho avuto modo di discutere di Un amore mi hanno detto la medesima cosa, usando persino uguali parole, come se si fossero messi d’accordo su una testimonianza (e io stessa condivido alla lettera).

L’avevo letto in gioventù – hanno commentato – ma non l’avevo capito; non riuscivo ad immedesimarmi in quest’uomo; invece ora sì, ora capisco, perché anch’io sono stato Antonio una volta o l’altra nella vita…

Un amore è un romanzo da mezzà età. Non leggetelo se siete troppo giovani impavidi freschi sfrontati, se la vita vi è dinnanzi come una lunga strada lucente disseminata di sogni. Né leggetelo se siete troppo vecchi, e ormai una passione avvilente e stolta vi sembra solamente ridicola. Leggetelo nell’ora in cui, sì, disapprovate l’errore di Antonio, eppure ne avvertite ancora la possibilità, la vaga seduzione, la trappola ancor tesa.

“Ci sono individui che maturano tardi, molto avanti con gli anni” disse Buzzati in una celebre intervista, “io debbo essere uno di quelli. Molte cose non le capisco ancora, altre le ho capite quando non mi serviva più di capirle” (parole da groppo in gola, ma anche per questo groppo occorre avere la giusta età).

Ecco, anche questo romanzo, fa parte delle cose che si comprendono tardi.

Può piacere o non piacere, Un amore, ma certo non lascia indifferenti. A me (occorre dirlo?) piace. Per la scandalosa sincerità con cui affronta un tema aspro degli anni Sessanta (le case chiuse son chiuse da poco), per il linguaggio sporco e non ipocrita (nessuna paura ad usare innumerevoli volte termini sconci che oggi definiremmo profondamente offensivi della donna; nessun timore di decantare la prostituzione); perché è scritto magnificamente, con uno stile alternativamente regolare (rispettabile equilibrato e borghese quanto l’Antonio professionista) e poi farneticante (come l’Antonio preso dalla gelosia e dal tormento), flusso di coscienza, delirio, discorso indiretto libero che è briglia sciolta, nervo scoperto, nudità.

Mi piace persino quando è brutto, fastidioso per l’uso bizzarro dei tempi verbali o la ripetizione di parole o intere frasi.

Ebbene, c’è da tirar fuori la matita rossa? Sono errori da bozza non ancora corretta? Certo che no. È il modo che Buzzati ha escogitato (brillante, forse l’unico possibile) di mettere su carta i pensieri confusi e ripetitivi di Antonio.

E mi piace, infine, per gli squarci che spalanca, amorevoli o disgustati, sulla città di Milano, terza protagonista del romanzo, non ancora la Milano da bere vertiginosa e modaiola, ma pur sempre una città che sta trasformandosi e crescendo, puttanella anche lei (“Laide è la città”, vien detto chiaro), contraddittoria, vecchia e moderna, pura e marcia, con angoli e abissi in cui l’occhio sembra precipitare. […] l’enigmatico cuore della sua città che nessuno di solito vede, fra squallidi e fortissimi scenari, attraverso gli scrostati fumigosi cortili stillanti di pioggia, fra i riverberi del lusso, negli antri degli antichi palazzi, giù per gli interminabili corridoi di linoleum, […]

Scriveva Eugenio Montale: “Ci troviamo nel cuore del più acceso realismo e psicologismo, nella dissezione quasi anatomica di un sentimento amoroso che molti diranno patologico ma che in realtà tutti gli uomini […] hanno almeno virtualmente provato.”

Scriveva Carlo Bo: “Non saprei dire se Buzzati ha scritto il suo libro più bello, so però che ci ha dato […] un libro coraggioso, a suo modo una confessione. […] un uomo, uno scrittore coraggiosi non si trovano tanto sovente.”

E Guido Piovene: “Sicuramente il libro prende, ci costringe a partecipare, affanna anche il lettore”.

Ci affanna, sì, e ci ferisce.

Un amore è il genere di libro che non finisce, che continua ad appartenere al lettore a prescindere dalla pagina aperta e chiusa; che gli resta, spina nel fianco, come una domanda irrisolta, intima, una questione personale.

Perché Antonio s’innamori così perdutamente, non lo sapremo mai.

Forse perché Laide è tutto quello che lui non è e vorrebbe essere: strafottente, spavaldo, sicuro di sé. Forse perché rappresenta la giovinezza che per Antonio sta inesorabilmente sfuggendo (l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte). Forse perché troppo a lungo con le donne si era sentito inadeguato, e aveva bisogno di un amore, un, indeterminativo eppur determinante, per quanto discutibile, che lo facesse sentire vivo e vicino all’universo femminile.

Cosa è stata Laide se non la concentrazione in una persona sola dei desideri cresciuti e fermentati in tanti anni e soddisfatti mai?