Una fiaba in bianco e noir

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di Stefano Crisafulli

 

La morte corre sul fiume e ha le fattezze e il volto di Robert Mitchum. Uscito nel 1955 negli Stati Uniti il film in bianco e nero di Charles Laughton non ebbe molto successo, tanto che Laughton non ne fece altri come regista, eppure resta una pietra miliare per la cinematografia di ogni tempo. Perché? Forse perché era un’opera troppo innovativa per l’epoca o, più probabilmente, perché mostrava in modo molto preciso l’ipocrisia religiosa della profonda provincia americana del Sud, che non amò rispecchiarsi al cinema. Ad ogni modo La morte corre sul fiume (il titolo originale era Night of the hunter, tradotto in italiano con un succedaneo, per una volta, piuttosto evocativo) non ha perso la sua forza di fiaba onirica e noir neppure più di sessant’anni dopo. Se poi, come successe al cinema Ariston di Trieste nell’estate di due anni fa, viene proiettato sul grande schermo, la suggestione si moltiplica. A questo proposito, non si ringrazierà mai abbastanza il lavoro di recupero e di restauro di questi capolavori svolto dalla Cineteca di Bologna.

Merito di questo grande successo (postumo) va sicuramente all’interpretazione allucinata e diabolica del reverendo Harry Powell, uno psicopatico dedito a uccidere e derubare donne vedove e sole, da parte di Robert Mitchum. La sua apparizione è folgorante sin dall’inizio, in particolare quando spiega, con trasporto mistico, il senso delle due parole tatuate sulle nocche delle mani: ‘love’ (amore) sulla destra e ‘hate’ (odio) sulla sinistra; le due mani si combattono, ma alla fine l’amore vince sull’odio. Scena rimasta giustamente celebre e ripresa tale e quale, ad esempio, da Spike Lee in Fa la cosa giusta. Ma i suoi sermoni sono solo un mezzo per gettare fumo negli occhi della comunità o, peggio, per manipolarla a suo piacimento, come accade nel villaggio sul fiume dove si svolge la storia. E la storia è presto detta: Powell viene a sapere in carcere, da un coinquilino condannato a morte, che i soldi di una rapina sono nascosti nella sua casa di famiglia. Così, quando viene liberato si precipita in loco, circuisce la vedova, ma non fa i conti con i bambini, gli unici a sapere dov’è il bottino. La madre alla fine scopre le sue mire, ma lui la uccide; i bambini invece riescono a scappare con una barca lungo il fiume, fino a rifugiarsi in un altro villaggio.

La colpa e l’innocenza sono, in questo film, chiaramente distribuiti: il reverendo è colpevole, mentre la madre e i bambini sono innocenti. I conti, però, non tornano se si giudica il comportamento della comunità del villaggio: prima accoglie il reverendo e lo innalza a guida spirituale, poi vorrebbe linciarlo quando scopre gli omicidi che ha commesso. Inoltre è proprio una vecchia bacchettona del luogo a spingere la madre dei due bambini tra le braccia del prete, perché ‘una donna con figli non può stare da sola’. Insomma, il film tratto dal romanzo di Grubb fruga nella religiosità distorta del Sud per far emergere il sottobosco di ipocrisie che permettono al male di agire indisturbato. Solo i bambini, infatti, non ancora segnati da sovrastrutture, potranno rifarsi una vita altrove. Mentre il colpevole, come ogni fiaba che si rispetti, verrà punito.