Una mostra doppia per Leopoldo Metlicovitz

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A 150 anni dalla nascita si ricorda l’artista a partire da Trieste, città ove nacque, appunto, nel 1868

di Walter Chiereghin

 

Doppia in quanto allestita in due sedi espositive diverse, il Museo Revoltella e la Sala Attilio Selva al pianterreno del Palazzo Gopcevich di Trieste, ma doppia anche perché è già annunciata una replica a Treviso, dove molte delle opere grafiche sono affidate alla custodia del Museo Nazionale Collezione Salce. Ci riferiamo alla mostra “Metlicovitz. L’arte del desiderio. Manifesti di un pioniere della pubblicità”, inaugurata il 16 dicembre 2018 rimarrà aperta fino al prossimo 17 marzo, e in seguito sarà visitabile, come detto, a Treviso dal 6 aprile al 18 agosto.

Curatore della rassegna: Roberto Curci, scrittore, giornalista e storico dell’arte, che in precedenza si era spesso occupato di cartellonistica, tra l’altro curando un’importante mostra su Marcello Dudovich tenuta al Revoltella nel 2002-2003 e pubblicando una monografia su quell’autore e un’altra su Marcello Mascherini. Curci è affiancato in questo attuale impegno di curatela da Marta Mazza, direttrice del Museo trevigiano nato dal lascito di Ferdinando Salce (Treviso, 1878-1962), che destinò allo Stato la sua raccolta di quasi 25.000 manifesti pubblicitari, stampati tra la fine dell’Ottocento e la data della scomparsa del collezionista. Attualmente, come ha precisato in sede di presentazione della mostra la Mazza, il museo da lei diretto vanta una collezione di oltre 40.000 opere, visibili a turno per ragioni di capienza delle aree espositive e di conservazione, duecento delle quali firmate da Metlicovitz e seicento da Marcello Dudovich, che fu suo allievo.

A 150 anni dalla nascita, con questa iniziativa, si ricorda Leopoldo Metlicovitz a partire da Trieste, città ove nacque, appunto, nel 1868, da genitori entrambi triestini. Frequentò scuole professionali, distinguendosi per l’abilità nel disegno, mentre appena quattordicenne iniziò l’apprendistato presso un’officina tipolitografica di Udine, mentre qualche anno più tardi è documentata la sua partecipazione come paesaggista a una mostra del Circolo Artistico di Trieste. A vent’anni si trasferì a Milano, che divenne la sua città d’adozione, dove trovò lavoro dapprima in una fabbrica, e successivamente, come litografo, alle Officine Grafiche Ricordi, che da pochi anni, nello stabilimento di Corso Venezia inaugurato nel 1883, avevano affiancato all’attività editoriale rivolta soprattutto alle opere liriche e agli spartiti musicali, anche la produzione cromolitografica indirizzata tra l’altro al nascente mercato delle stampe pubblicitarie. Dal 1888 l’azienda era affidata a Giulio Ricordi, mentre direttore artistico era Adolf Hohenstein (San Pietroburgo, 1854 – Bonn,1928), cui ben presto si affiancò Metlicovitz come direttore tecnico, ed ebbero un ruolo creativo nell’azienda a fianco a loro il polacco Franz Laskoff – o Laskowski (Bromberg, 1869 – post 1921) e l’altro grande triestino Marcello Dudovich (Trieste, 1878 – Milano, 1962). Nella grande affermata Casa Ricordi operavano altresì altri disegnatori creativi di nazionalità italiana, ma, come osserva Curci nel bel catalogo che documenta la mostra (Lineadacqua editore) «furono quei magnifici quattro “forestieri” a imprimere la sterzata decisiva per le sorti italiane dell’arte dell’affissione murale, già matura in altri paesi europei e qui ancora incerta, balbettante». Tra i due triestini, “forestieri” a Milano per modo di dire, intercorse dunque inizialmente un rapporto di maestro/allievo, dove tale secondo ruolo spettava a Dudovich, di dieci anni più giovane. Come fa ancora notare Curci, fu un caso classico di “allievo che supera il maestro”, anche in virtù di alcune connotazioni caratteriali che favorirono – sulla via del successo e della fortuna critica – il più giovane dei due rispetto al più austero, discreto Metlicovitz, compassato fino alla modestia. Il rapporto di apprendistato artistico durò all’incirca due anni, dal 1897 al 1899, dopo di che Dudovich spiccò il volo e, dopo un luminoso periodo bolognese, ritornò in Ricordi nel 1906, anno in cui Adolf Hohenstein era ripartito per la sua Germania.

Forse fu anche il dimesso profilo “mondano” che contribuì a dar corso alla disattenzione della critica nei confronti di Metlicovitz, inducendolo, dopo un lungo periodo di grande fervore creativo nella cartellonistica, a diradare i suoi impegni in quell’ambito, soprattutto dopo la scomparsa, nel 1912, del suo “principale” e amico Giulio Ricordi, concentrandosi invece sulla pittura nel suo rifugio in Brianza, la villa di Ponte Lambro che aveva acquistato nel 1908. In un crescente isolamento, peraltro autoimpostosi, si rifugiò negli affetti familiari e si dedicò alla pittura, da lui considerata sempre la sua più autentica vocazione artistica. E nel suo ritiro di Ponte Lambro morì il 19 ottobre 1944.

La mostra triestina propone una notevole quantità di opere, in gran parte – per quanto attiene ai manifesti – provenienti dal Museo Nazionale Collezione Salce, ma si tratta anche di lavori appartenenti a generi diversi, provenienti da collezioni private o dai musei triestini copertine di riviste illustrate, cartoline (una produzione estesissima e non sempre esaltante nei suoi esiti, attentamente analizzata nel catalogo da un saggio di Piero Delbello), e da ultimo dipinti a olio. All’impegno pittorico dell’autore appartengono tre notevoli ritratti, donati dagli eredi dell’artista, le signore milanesi Elena e Francesca Metlicovitz: si tratta di un più antico pastello su cartone recante un Ritratto del padre, dei primissimi anni del secolo scorso (1901-1905), e di due oli su tela, un Autoritratto e un Ritratto della moglie Elvira Lazzaroni, entrambi dipinti attorno al 1930, che hanno trovato, collocazione nelle collezioni del Museo Revoltella, secondando ex post quella «nostalgia della pittura di un cartellonista suo malgrado», come felicemente intitola il suo saggio in catalogo Susanna Gregorat. La divaricazione tra questa sua pulsione verso la pittura e l’esigenza di confrontarsi con un lavoro creativo che imponeva altri rigidi schemi, finalizzati a far presa immediata su un passante distratto, e richiedenti quindi essenzialità nelle linee, colori squillanti, assenza di ombreggiature, contenimento di effetti chiaroscurali, abbandono di ogni velleità di ornato, essenzialità lo condusse probabilmente a una nausea o almeno a una disaffezione nei confronti del lavoro che gli dava da vivere e un pur limitato successo.

Non vi è dubbio tuttavia che la parte di gran lunga più rappresentativa del lavoro di Metlicovitz sia costituita dalla produzione di immagini di grande formato per la pubblicità murale, e in questo senso la mostra offre una panoramica di grande impatto emotivo sul visitatore, non fosse altro che a causa della possibilità di vedere nelle dimensioni per le quali erano state pensate le rutilanti immagini dei manifesti, solitamente godibili soltanto nelle ridotte illustrazioni di un volume. Sfila così invece, davanti ai suoi occhi, un microcosmo disseppellito da una società, da un’industria, da un teatro, da una musica, da un cinema, da una moda, da uno sport, da un turismo, persino da un erotismo che conosciamo ormai per erudizione, appartenendo ad un secolo fa, o giù di lì.

Il che, ovviamente, non ci impedisce di goderne.