Un testo antico e uno appena sfornato

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Lisistrata di Aristofane e Tempo di attesa di Spirito-Burul

di Fulvio Senardi

Lisistrata, una delle poche commedie di Aristofane giunte fin a noi, riveste un’assoluta attualità in un mondo sconvolto dalle guerre, e nel momento in cui – questo ci tocca da vicino – la Nato e gli Stati Uniti fanno la voce grossa con la Russia, lasciando intravvedere cupi scenari per un continente che ospita un numero non insignificante delle 14.000 testate atomiche esistenti e armabili con breve preavviso. Il contesto storico della pièce è la seconda fase della guerra del Peloponneso e il disastro della spedizione in Sicilia, fortemente voluta da Alcibiade. Lutti e malattie (ancora fresco il ricordo delle peste di vent’anni prima) colpiscono l’Attica, e da qui l’invocazione alla pace che prende la forma, in Aristofane, di una vivace rappresentazione comica, sul filo di una tagliente provocazione, se consideriamo la struttura rigorosamente patriarcale della società greco-antica: affidare il compito di interrompere la catena delle guerre alle donne delle città in lotta (Atene e Sparta in primo luogo) che, guidate da Lisitrata, scelgono l’inusuale strumento di uno sciopero dell’amore. La felice conclusione, celebrata da due cori, è il trionfo di un roseo principio speranza (meta ancora lontana dopo duemila anni). La messa in scena triestina presso il Teatro “La Contrada”, con testo rielaborato da Ugo Chiti, e che vede Amanda Sandrelli nel ruolo della protagonista, accompagnata dagli attori dell’“Arca Azzurra” (laboratorio teatrale toscano che conta ormai quarant’anni di vita), confermano che Lisitrata è una commedia ancora perfettamente capace di parlarci (un bene per l’arte teatrale, un male per la storia dell’uomo). La scenografia essenziale, e in quanto tale adatta cornice per la fisicità degli attori, esalta la presenza carismatica di Amanda Sandrelli, una Lisistrata assertiva e persuasiva. Agli attori dell’“Arca Azzurra” il compito di costruirle attorno quel reticolo di relazioni, emozioni ed affetti che costituiscono società; offrendoci dei medaglioni che pescano con efficacia nell’universale umano, come nel caso, di forte coinvolgimento, della coppia anziana che si ritrova e si riavvicina, complice una crosta di pane alle olive. Merito della regia e degli attori l’elegante risoluzione di certe situazioni comiche che, apertamente oscene in Aristofane (ma allora erano solo uomini a recitare e ciò certo mitigava lo scandalo trasformandolo anzi in riso), necessitano oggi di soluzioni più metaforiche e allusive.

Meritevole produzione della “Contrada” è Tempo d’attesa, in scena al Teatro dei Fabbri di Trieste, un testo di Pietro Spirito e di Elke Burul che firma anche la regia. Una pièce forte e coinvolgente recitata con grande capacità comunicativa da Elke Borul e Maurizio Zacchigna, nella parte dei protagonisti, accompagnati con scioltezza da Daniela Gattorno e Omar G. Makhloufi: un quartetto di interpreti che garantisce allo spettacolo vivacità e tensione. Tempo d’attesa ci riporta indietro, alla Trieste punto di passaggio, di confronto, di attrito tra due mondi contrapposti, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, con i loro vassalli e valvassori.

Sul filo di questo recupero temporale si snodano temi di urticante attualità: quello della profuganza, per esempio, materia densa e rovente che colpisce sensibilità e intelligenza. E se nel dramma esso è ricondotto, come Storia esige, alle specifiche condizioni di un’Europa divisa in due dalla Cortina di ferro, facendoci rivivere le atmosfere claustrofobiche e il clima di sospetto che regnava nel Centro di raccolta profughi di Padriciano, pure strizza l’occhio a un fenomeno diventato endemico, con modalità particolari e nuove, un tragico sussulto della contemporaneità che strappa la maschera ipocrita di continente civile ad un’Europa ormai indifferente a muri, lager, marce della morte, naufragi. Il bisogno di libertà del fotografo cecoslovacco che ha sperimentato sulla sua pelle la durezza della censura di stato, è anch’esso un tema che appartiene al presente; e non solo nei Paesi dove la democrazia è scarsa o assente, ma anche in quegli Stati che si ergono a giudici, orgogliosi del loro “sistema”; e non mi riferisco agli Stati Uniti, Paese “canaglia” sotto le mentite spoglie di difensore di democrazia e libertà, ma a certi Stati della vecchia Europa, al nostro per esempio, che ha fatto del giornalismo (il fascismo aveva mostrato la strada) non il mastino che sorveglia il potere, ma il gatto soriano che si struscia ai suoi piedi. Sul difficile dipanarsi di queste suggestioni, nel tempo breve dello spettacolo che impedisce più espliciti sviluppi, prevale infine l’illustrazione di un dramma più intimo e segreto, la messa a nudo di un rammarico inconfessabile: disgustato dal proprio ruolo servile nei confronti del regime il fotografo Paklic è fuggito da Praga trascinando con sé la moglie Jana, ma, varcando il confine nell’ombra complice dei boschi, ha perduto proprio colei che rappresentava la sua ragione di vita. Non se ne dà pace, si interroga, rischia di cadere nel laccio di un’abile spia, confusasi tra gli espatriati. Viltà, tradimento, amore e morte, dunque, il significato profondo di Tempo d’attesa, che si annuncia come una pièce “politica” per risolversi poi – e non è detto che sia un male – su un piano squisitamente esistenziale.

Tempo d’attesa

foto di Fiammetta Rodella