Il lato oscuro di Antonioni

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Da Blow-up a Zabriskie point: il ’68 esplode al ralenti

di Stefano Crisafulli

 

«Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà». In questa dichiarazione del regista Michelangelo Antonioni, fatta nel 1964, c’è forse il nocciolo duro dei suoi film, sia dal punto di vista formale che da quello contenutistico. In particolare se si considerano le due opere uscite subito prima e subito dopo il ’68, Blow-up, del ’66 e Zabriskie point del ’70: in entrambe vi è una stratificazione di significati e di livelli interpretativi, tanto che lo spettatore è continuamente sviato dalla perfetta comprensione di ciò che accade. Già, ma cosa accade? E, soprattutto, ciò che accade è vero o è solo un’illusione?

Partiamo da Blow-up, film liberamente tratto da un racconto di Cortazar, La bava del diavolo, e sceneggiato dallo stesso Antonioni con la collaborazione di Tonino Guerra e, per i dialoghi inglesi, di Edward Bond. Qui il protagonista, Thomas (David Hemmings), è un fotografo di moda affermato nella swinging London degli anni ’60, che però va alla ricerca di foto molto diverse dal suo lavoro per un libro che sta per pubblicare. Nel libro ci dovrà essere quella ricerca di verità che il mondo della moda, fatto di pose teatralmente false, di corpi alienati esposti al voyeurismo del pubblico e di mercificazione della bellezza, non può dare. Ma durante questa ricerca, sintomo di inquietudine e insoddisfazione, Thomas si imbatte in qualcosa di più: quasi attratto da una coppia in un parco, la fotografa e poi, sviluppando il rullino e ingrandendo le immagini così ottenute, si accorge della presenza, lì vicino, di un cadavere. Non convinto pienamente da un’immagine che risulta sgranata e poco intelligibile, va a controllare sul posto e trova il morto. Cerca allora di coinvolgere il suo amico Ron, che gli pubblicherà il libro, ma non ci riesce e il mattino successivo il cadavere non c’è più. Dov’è, dunque, la verità? Passando attraverso il setaccio del mezzo tecnologico (la macchina fotografica), sembrava che fosse riapparsa carsicamente da una scena apparentemente idilliaca vista con i propri occhi, sfaldandosi, però, dopo un ulteriore confronto con la realtà. Una realtà che è anch’essa fragile e foriera di molteplici punti di vista, tutti egualmente veri. Antonioni si muove, filosoficamente, tra il Nietzsche di «non esistono i fatti, ma solo interpretazioni» e l’approccio fenomenologico di un Husserl che vorrebbe mettere tra parentesi la realtà (con l’epoché) per giungere alla sua essenza. Del resto Blow-up è un termine inglese che significa ‘ingrandire una fotografia’, ma anche ‘esplodere’: ciò che esplode, in questo caso, è la realtà stessa in frammenti non ricomponibili, come se fosse un puzzle senza soluzione. Ad esplodere sono anche le contraddizioni della società, che, di lì a poco, getteranno le basi per una ribellione generalizzata e soltanto esplicitamente sfiorata nel film.

Un’altra esplosione avverrà, in modo molto più netto e storicamente rilevante, nel film Zabriskie point del 1970. I protagonisti sono una coppia, Mark e Daria: lui è uno studente ribelle e propenso al nichilismo, lei la segretaria di uno speculatore. Siamo negli Stati Uniti, a Los Angeles, nel bel mezzo delle contestazioni studentesche che avevano infiammato i campus universitari. Ma se all’inizio la macchina da presa si rivolge alla rappresentazione sintetica delle assemblee, dell’occupazione degli edifici del campus e degli scontri con la polizia, molto presto alla cronaca dell’azione si sostituirà la fuga, in parte reale e in parte immaginata, della coppia da un mondo capitalista cinico e reificante, che trasforma i consumatori in manichini obbedienti e gli ambienti naturali in ospizi dorati per riccastri. Mark scapperà via dalla città con un aereo rubato, per paura di essere accusato ingiustamente dell’uccisione di un poliziotto (anche se avrebbe voluto esserne lui l’autore), e Daria in macchina per raggiungere il suo principale in una villa in mezzo al deserto dotata di tutti i comfort. L’incontro tra i due, suggellato presso il Zabriskie point del titolo (punto di osservazione della Death Valley, realmente esistente), potrebbe portare a un’unione di intenti, ma alla fine le loro strade si divideranno ancora: Mark riporterà indietro l’aereo andando verso la morte per mano delle forze dell’ordine e Daria, appresa la notizia, immaginerà di far esplodere la villa del suo capo, nella sequenza più giustamente celebre di tutto il film. Al ralenti e con il sottofondo musicale di Careful with that axe, Eugene dei Pink Floyd, autori di parte della colonna sonora, la villa esplode con tutto il suo corredo di oggetti di consumo: frigoriferi, televisori, divani, polli surgelati e così via. L’urlo di Roger Waters è il perfetto accompagnamento per un’esplosione che corrisponde alla rabbia dei movimenti del ’68 nei confronti di un establishment, statunitense ed europeo, che si stava dimostrando sempre più arrogante e repressivo. Antonioni, però, suggerisce, con l’immagine immediatamente successiva all’esplosione, che essa sia solo la proiezione di un desiderio di Daria, così come il risultato della rivolta sessantottina, pur portando un cambiamento reale (con buona pace dei revisionisti), sarà purtroppo anche il prodromo di una disillusione e di un erosione dei diritti acquisiti, i cui devastanti effetti si vedono ancora oggi.