Il gatto di Rembrandt

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Un romanzo breve di Alberto Brambilla

di Rossana Melis

 

Il protagonista del romanzo breve di Alberto Brambilla Il gatto di Rembrandt, un rovistatore di archivi, apre il racconto in prima persona  in modi classici, un po’ favolosi, e noi ci prepariamo ad ascoltarlo, tanto più che sappiamo tutti quanto desiderio ha uno studioso, un ricercatore che ama immergersi tra le carte raccolte negli archivi, di poter poi raccontare le sue avventure a qualcuno, elencare i luoghi dove le ha vissute, insomma riviverle nella parola: «Molti anni fa, preparavo la mia tesi di laurea e avevo dovuto ispezionare parecchi archivi e biblioteche alla ricerca di documenti utili».

Tutto dunque è iniziato in tempi lontani. Le tappe del viaggio partono dal Museo Correr di Venezia, dove però il ricercatore è un po’ distratto da materiali futuristi che niente hanno a che fare con l’autore di cui si sta occupando, Petrarca. E qualcosa annota in un taccuino. Torna poi nel corso degli anni a Venezia, alla Fondazione Cini, e poi di nuovo, in anni più recenti, al Museo Correr. Questa volta il poeta indagato è Carducci, e le sue lettere del 1883. Ma il fondale è sempre la sala di lettura, «buia e fresca», sempre la luce filtra «da un’alta finestra dai vetri colorati». Il lavoro di decifratore di manoscritti è faticoso e assorbente, ma non tanto da non permettere che il fondale si allarghi alla città, Venezia. «Si intuiva l’oscillare del mare là fuori» ricorda lo studioso, che subito riconosce – e l’osservazione, come vedremo, darà poi un senso a tutto il romanzo –: «C’era una distanza incolmabile tra la Natura, che quasi premeva per entrare, e la Storia, rappresentata da quelle lettere del 1883» (p.8). Tuttavia, malgrado sia tornato nella stessa biblioteca dove si conservano i documenti futuristi che l’avevano attratto tanti anni prima, non ci pensa più, né apre il quadernetto dove aveva fatto delle annotazioni su quel periodo.

Poi, improvvisamente il racconto cambia spazio e tempo. Siamo solo a una decina di anni fa, lo studioso legge questa volta Le rouge e le noir di Stendhal. Si anima improvvisamente quando si accorge che le vicende del romanzo sono, nel momento della lettura, ambientate a Besançon, proprio la città da dove sta ora leggendo, dove da qualche giorno è arrivato, attratto dalla speranza di cambiare lavoro, entrare in quella Università. Da questo momento Besançon diventa uno dei protagonisti del racconto, che si allunga in lente, compiaciute descrizioni degli indugi del narratore nelle vie, delle sue considerazioni immaginose, da flaneur, sulla geometria della città vecchia, e gli uomini famosi che vi sono nati e l’hanno attraversata: «Ogni mattina, per andare all’Università, uscivo da rue della Bibliothèque dove abitavo, incrociavo la Grande Rue e mi fermavo a fare colazione in una pasticceria, dove bevevo un caffè e mangiavo una o due paste con crema e uvetta. Uscendo percorrevo pochi metri e poi entravo nei portici accoglienti del Palais Granvelle, dal rassicurante e geometrico stile rinascimentale. Attraversavo il cortile quadrato e sbucavo nella piccola piazza alberata, dove c’è il monumento a Victor Hugo, con cui scambiavo un saluto affettuoso.[…] Che nel centro di Besançon ci fosse un’oasi simile, governata dall’alto dal cittadino più illustre, Victor Hugo, mi dava un senso di protezione e di familiarità. Tutto era un orologio che camminava alla perfezione, con gli ingranaggi oliati a meraviglia, quasi orgogliosi di dare voce a un concerto» (p.10).

 

Se questa prima parte del romanzo è dominata dagli esterni e dagli interni di Besançon, arriva anche a raccontare, con lieve souplesse, i motivi del distacco del protagonista da lei. Perché lo studioso aveva sognato di vincere lì un concorso, farla quindi diventare la sua dimora. Invece lo aveva perso, e la doveva lasciare. (Non a caso questa Parte Prima  si chiama Besançon adieu). Però, l’ultimo giorno prima di partire va nell’unico museo che non ha ancora visitato, il Musée du Temps, che pure è a Palais Granvelle: «come se qualcosa me lo imponesse – racconta – quasi fosse l’ultima opportunità che mi veniva offerta dal destino. [..] Mi era rimasta solo mezz’ora per misurarmi con il Tempo. […] Così avrei potuto allontanarmi dalla Franche-Comté con la soddisfazione di aver finalmente visitato quel museo che incontravo sulla mia strada ogni giorno.[…] Consacrare un museo al dio Crono era un’idea originale. Era anche quella una battaglia dell’eterna lotta dell’uomo contro la Natura» (pp. 21-22). Ma, mentre osserva affascinato la riproduzione del Pendolo di Foucault, improvvisamente gli tornano alla mente i documenti in cui si era imbattuto parecchi anni prima al Museo Correr; e nitido, tra questi, un piccolo biglietto in cui era scritto solo un appunto.

Un appunto, trovato tra le carte di un letterato veneziano dell’Ottocento, che lo continua a tormentare anche in Italia. L’aveva allora trascritto: «Rembrandt a Besançon?? | Serve a Boccioni al più presto». Per fortuna deve tornare ancora a Besançon per chiudere definitivamente i rapporti con la città. Farà dunque delle indagini, sulla vita e le opere di Rembrandt, sulla vita e gli incontri del futurista Boccioni.

Il racconto prosegue, indugiando come sempre su particolari colmi di indizi non ancora compresi, sull’ulteriore e ultima settimana di soggiorno a Besançon, con la visita al Musée des Beaux-Arts, sulle tracce, all’inizio infruttuose, della presenza di Rembrandt. Ma alla fine una responsabile del Museo comunica al nostro protagonista che lì sono conservati ben tre disegni del pittore. Ormai definitivamente in Italia, si immerge nell’analisi di quello dei tre disegni che lo attira di più, L’Annunciazione. Gli piace affrontare l’enigma di quel biglietto, una sfida per lui voluta, senza gli assilli del lavoro: «Forse per la prima volta nella mia vita quella ricerca, o meglio, quella curiosità, era puramente personale e ideale. Nel senso che non aveva uno scopo immediato, pratico. Non dovevo pubblicare nessun articolo, per intenderci. Né avevo date da rispettare. Ciò mi donava molta libertà e in qualche occasione una specie di godimento, che avevo provato solo da bambino» (p. 41). Nell’ostinato tentativo di capire il nesso tra Rembrandt e Boccioni, continua a ingrandire la scansione del disegno dell’Annunciazione (che è riprodotto sulla copertina e all’interno del libro), un  Angelo dalle grandi ali incombenti su una ritrosa Maria, cui è sfuggito, nell’alzarsi, un gomitolo di lana, mentre un velocissimo gatto lo rincorre.

Si apre adesso la seconda parte del racconto, L’angelo Rembrandt, dove l’autore analizza, suppone, crea legami tra le varie Annunciazioni degli ultimi secoli con quelle di Rembrandt, e le vicende della vita del pittore nel tempo in cui ha composto il disegno. Non mi dilungo sulla trama di queste dense e dotte ipotesi costruite per carpire l’interesse che forse Boccioni aveva avuto verso il disegno di Rembrandt. Fissandolo con sempre più attenzione, confrontando l’atteggiamento di Maria con quello dell’Angelo, e con il repentino movimento del gatto che vuole afferrare il gomitolo, un dubbio attraversa l’autore nel mezzo delle sue letture sempre più coinvolgenti del disegno: forse i suoi «amici filologi» avrebbero posto obiezioni perfino alla legittimità delle sue domande «prive di qualsiasi logica»(p.69).

Ma va avanti, pensando che non era stato un caso che il ricordo degli appunti del Museo Correr era affiorato proprio mentre guardava il pendolo di Foucault. Perché nel gatto che corre,  accanto all’atto di Maria collocato invece in un tempo sospeso, «Rembrandt mette a punto una calcolata (anche se illusoria) congiunzione di tempi, che in effetti hanno diversa velocità» (p.72). Costituiva dunque, questo incrocio di spazio e tempo – come osserva il narratore nell’Epilogo (Umberto e il gatto) – un riavvicinamento al futurista Boccioni proprio nella fascia inferiore del disegno, «quella in cui il gatto si lancia a razzo verso il gomitolo […]. Per indicare la rapidità del felino, e la sua estensione nello spazio, Rembrandt ha infatti tracciato delle linee orizzontali a mo’ di scia, un po’ come si usa nei fumetti. Quell’effetto speciale, unito al concetto di velocità, non poteva richiamare, per analogia, ad alcuni principi dell’estetica futurista?» (p.95).

Il nostro narratore accumula intanto altre osservazioni sulla possibilità, suggerita dal biglietto ritrovato casualmente a Venezia, dell’incontro a Besançon tra il giovane Boccioni e l’opera  che può aver avuto un’incidenza reale sulla sua arte. Non pago, e dubbioso, pensando agli amici filologi, vuole poi passare a una verifica “scientifica”, che però lo lascerà dubbioso in modo definitivo, anche se insieme osserva che comunque «ciò che mi aveva entusiasmato era stato il viaggio, la conoscenza di cose meravigliose, contenute in un piccolo disegno e generate da un biglietto di poco conto» (p.97).

Il romanzo, possiamo dirlo, tratta una vicenda che ha vissuto in prima persona lo stesso Alberto Brambilla (chi lo conosce l’ha capito subito, né lui ne fa mistero). Ci sono dentro le sue paure, i suoi sogni, le sue passioni e in fondo le sue scelte. Perché, per chi bada ai sottotesti, a quello che ci dice il titolo, a generare la necessità del racconto può aver influito quell’episodio che  ricorda Ennio Flaiano in un articolo sul «Corriere della sera» del 1970, e che va appunto sotto il titolo di Un dilemma: «Il dilemma di Rembrandt e del gatto, ossia “dovendo salvare da un incendio o un Rembrandt o un gatto, chi salvereste?”, risulta sempre favorevole al gatto, cioè alla vita di un essere qualsiasi più che a un prodotto per quanto raffinato della civiltà e dell’arte. (poi in E. Flaiano, Opere. Scritti postumi, Milano, Bompiani, 1988, p.704).

Flaiano si rifaceva a una nota affermazione dello scultore e scrittore svizzero Alberto Giacometti, che in una conversazione aveva detto appunto: «In un incendio, tra un Rembrandt e un gatto, io salverei il gatto». Grazie al titolo, possiamo allora interpretare il romanzo di Alberto  Brambilla come una elaborata, sommessa parabola: il risultato del concorso universitario che ha dato l’avvio alla storia può essere una sconfitta, ma lascia immutato l’amore per la luce di Venezia, la città di Besançon, la vita di tutti i giorni, e insieme l’amore per le biblioteche, che mantiene la fascinazione, vissuta nell’infanzia, dei misteri che si possono decifrare come tesori ritrovati. Insomma una ostinata scelta di vita vera, che contende continuamente il terreno alla passione, anch’essa salvifica, per una ostinata e talvolta illusoria ricerca di verità filologica.

 

Alberto Brambilla

Il gatto di Rembrandt

romanzo

GMlibri, Milano 2022

pp.102. euro 14,00