UN MESE AL CINEMA: GIUGNO 2017
cinema | Pierpaolo De Pazzi
GIUGNO 2017 AL CINEMA
di Pier Paolo De Pazzi
Sole cuore amore (Daniele Vicari, Italia 2016), un bel film con pregi che superano di molto i pur presenti difetti.
Il titolo è preso dal tormentone dell’estate 2001, la canzone di Valeria Rossi, che si sente cantata da bambini nel film. La trama è scarna: Eli, orfana, ha quattro figli, un marito disoccupato e un lavoro scomodo, sottopagato e in nero. L’ amica Vale è in contrasto con la madre, vive sola e lavora come danzatrice e performer. A complicare ancora la vita di Eli arriva una malattia.
Sono molto buone le interpretazioni, su tutte quella di Isabella Ragonese (Eli), tenera e forte, stretta in un cappottino rosso come Linus nella coperta, ma si segnalano anche Francesco Acquaroli (Nicola, il padrone del bar dove lavora) ed Eva Grieco (Vale). È veramente bella, a volte livida, altre volte coloratissima, la fotografia di Gherardo Gossi. La musica jazz di Stefano di Battista accompagna benissimo la protagonista, nella sua lunga via crucis urbana, da Nettuno alla Laurentina, da qui a Termini e quindi alla fermata Lucio Sestio, al Tuscolano e quindi a Piazza dei Consoli, andata e ritorno. Un commento musicale e una protagonista che mi han richiamato alla memoria l’accompagnamento di Miles Davis alla celeberrima passeggiata di Jeanne Moreau.
Condivido fortemente la scelta etica e politica di mostrare con la storia esemplare di Eli le conseguenze della diffusione incontrollata del precariato nel lavoro, che rende la nostra società un mondo ormai inadatto all’amore e alla nostra stessa umanità. Vicari lo fa con uno sguardo registico che si fa corale e comprende in un’epica quotidiana, con carrellate e campi che si allargano, le tante persone che viaggiano nei mezzi pubblici con Eli, ciascuno come lei protagonista di una propria storia difficile e dignitosa.
Mi è piaciuto molto come il regista – sceneggiatore ha saputo mostrare l’odierna banalità del male, ad esempio nel confronto tra Eli, che ormai malata chiede un giorno di riposo, e Nicola, che glielo nega, con una logica apparentemente senza uscita che lo rivela per quel che è: un poveretto che vivacchia sull’orlo del fallimento, tentando di salvare il rapporto con la moglie, che è l’unica cosa che ha. Ecco il male che si allarga a macchia d’olio nella nostra società, dove i rapporti tra le persone sono completamente alienati per le pressioni imposte dai rapporti economici, anche se il mantra è che la lotta sociale non esiste e i moralisti di turno vorrebbero farci credere che è l’uso di nuovi strumenti di comunicazione e dei social media a rovinare i rapporti tra le persone.
Ma dicevamo un film non privo di difetti. I personaggi, tutti, sono appena abbozzati, accennati, senza passato, figure emblematiche. In particolare la storia di Vale, che sembra venir fuori da un altro progetto, è troppo ridotta e piena di stereotipi per poter fare da contraltare a quella di Eli che, un po’ più sviluppata, avrebbe retto da sola l’intero film. La
somma delle due vicende, in questo caso, mi sembra dia un risultato inferiore a quanto si voleva ottenere.
Vertigine (Laura, Otto Preminger, USA, 1944, premio Oscar per la fotografia a Joseph LaShelle), dal romanzo di Vera Caspary (che ha scritto anche Lettera a tre mogli). Lab 80 dedica la rassegna La Diva Fragile alla diva Gene Tierney, troppo presto dimenticata, attrice bravissima dalla bellezza insuperata. Un film giallo molto raffinato e ambiguo, con una solidissima sceneggiatura, dialoghi con battute scoppiettanti alla Oscar Wilde e una storia d’amore che ci fa piacevolmente confondere tra sogni, fantasmi e scambi di… cadavere.
Femmina folle (Leave Her to Heaven, John M. Stahl, USA, 1945), dal best seller omonimo di Ben Ames Williams. È un melò esagerato, sovraccarico, che mescola vari generi (noir, legal thriller, anche western) in un’ambientazione luminosa, fotografata in un sovra-saturato technicolor che ha valso l’oscar alla pellicola. Tanta luce fa da contraltare ai neri abissi della psicologia della protagonista. Il film è amatissimo dalla critica (anche Martin Scorsese lo mette tra i suoi film preferiti) ed è uno dei vertici attoriali per Gene Tierney, che purtroppo l’oscar non lo vinse mai, e neanche per questo ruolo di femme fatale, irresistibile ma fragilissima dark lady. Si tratta anche di uno di quei film in cui vita e arte si confondono, dal momento che la Tierney soffrirà a lungo di disturbi mentali, causati dalla fine del matrimonio con lo stilista Oleg Cassini (costumista anche di questo film) e dallo sviluppo della malattia della figlia maggiore, disabile fin dalla nascita, come il giovane cognato della protagonista del film. Tutto ruota attorno alla sua gelosia di donna ricca e viziata, che si scatena contro ciò che sembra limitare le attenzioni del marito nei suoi confronti.
Il titolo originale viene dall’Amleto, atto 1 scena V, quando lo Spettro dice ad Amleto: «non far che la tua anima / abbia a mai cospirar contro tua madre; / lascia al cielo e alle spine ch’ella ha in petto / di pungerla e trafiggerla…»
Il film, tutto narrato in flash back (come molti altri film dell’epoca, Cime tempestose, Quarto Potere, Il viale del tramonto, lo stesso Vertigine ecc.) piace molto per la sfarzosa ricchezza della sua ambientazione, così ben fotografata in technicolor, e per la bravura delle protagoniste (da menzionare anche Jeanne Crain che fa la sorellastra della protagonista), mentre è del tutto secondario il protagonista maschile, un Cornel Wilde buono solo a scatenare il complesso edipico nella Tierney.
Conclude la breve rassegna Il fantasma e la signora Muir (Joseph L. Mankiewicz, USA 1947).
Anche qui alla base è un romanzo di Josephine Leslie, scritto con lo pseudonimo di R. A. Dick, utile per fingersi scrittore-uomo, opportuno autore di una novella di ambiente marinaresco.
Questo film è veramente un capolavoro, un melodramma spettrale, una commedia malinconica dove sogni e visioni, premonizioni e presagi si mescolano e si intrecciano per costruire il mito del cinema, essendo fatti di ombre, come le immagini in movimento dei fantasmi di celluloide.
Rex Harrison, il fantasma di un lupo di mare, infesta una casa presa in affitto da un’indipendente e orgogliosa vedova (Gene Tierney, Lucy Muir – Mare in Gaelico) che si trasferisce a vivere lì con figlia e domestica, che e non solo non si fa spaventare, ma anzi diventa autrice (di successo) della biografia dell’affascinante ectoplasma, come da lui raccontata. Durante queste conversazioni la vedova e il capitano finiscono per innamorarsi, ma per potersi unire devono attendere di esser finalmente sullo stesso piano, ultraterreno.
La bellissima Tierney sta per arrivare alla fine della sua carriera breve e grandissima e sparirà dal grande schermo come un fantasma, nel pieno del trionfo.
Sta per cominciare invece la carriera di Natalie Wood, che nel film interpreta la figlia della protagonista, giocando a lungo sulle rive dell’Oceano. È da brivido quando un vecchio marinaio incide il nome della bimba, Anna Muir, su un asse che conficca nella sabbia, quasi come una lapide, e non si può non pensare a come il mare si porterà via, tanti anni dopo, la vita di Natalie.
Il capitano confessa alla bella vedova che quando navigava gli teneva compagnia la lettura di Keats, in particolare dell’Ode to a Nightingale, e le cita due versi: «Charm’d magic casements, opening on the foam/ Of perilous seas, in faery lands forlorn.»
Ma noi, dopo aver visto il finale catartico, uno di quei momenti di cinema che si stampano indelebili nella nostra memoria, troviamo piuttosto questi altri versi nell’ode segnalata con quella citazione da J.L. Mankiewicz: «…and leave the world unseen, / And with thee fade away into the forest dim: / Fade far away, dissolve, and quite forget / What thou among the leaves hast never known, / The weariness, the fever, and the fret… / Was it a vision, or a waking dream? / Fled is that music:—do I wake or sleep? »
È quindi lo stesso regista che ci mette sulla traccia di questa interpretazione del suo film come capolavoro assoluto del cinema chimerico, fatto di pezzi di sogni e di pezzi di realtà, passata, presente, o come nelle magiche anticipazioni degli oracoli, futura.