Alla scuola di Strehler

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Intervista a Sara Alzetta, a suo tempo sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano, diretta dal regista triestino

di Walter Chiereghin

 

Conversiamo su un terrazzino al cui tavolo capita spesso di mangiare qualcosa assieme, con lei che si schermisce, ma poi ci dà dentro con coscienziosa voracità. Appollaiata sulla sua poltroncina, Sara si lascia andare con l’irruenza che le è propria a ricordi che, dalle nostre parti, nessun altro attore è in grado di condividere. Perché è l’unica, in regione, ad esser stata allieva e interprete di Giorgio Strehler.

 

Quando hai conosciuto Giorgio Strehler?

Da spettatrice di un suo spettacolo. A Milano, a Palazzo Litta, dove, nel parco, era stato montato un palco estivo su cui si rappresentava il suo Arlecchino servitore di due padroni. C’era già Ferruccio Soleri ad interpretare il protagonista. Erano gli anni Settanta, io ero una bambina.

Quasi una fatalità che anticipava il tuo futuro di attrice, dunque…

Avrò avuto forse otto anni, e certo non potevo immaginare che poi avrei avuto la parte di Beatrice nel medesimo spettacolo, che è stato forse il più celebrato e duraturo successo della produzione del regista triestino.

Quando iniziasti a frequentare la scuola di Strehler presso il “Piccolo”, avevi già compiuto degli studi di teatro?

Sì, avevo già frequentato per un anno l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” a Roma, quando sostenni gli esami per entrare alla Scuola del Piccolo Teatro, dove ricominciai gli studi.

Di che anno stiamo parlando?

Del 1987. Nella primavera, superati gli esami di ammissione, dovetti scegliere se continuare con l’Accademia o ricominciare con il “Piccolo”, e quest’ultima fu la mia scelta. Quell’estate, stavo lavorando come mimo alla Turandot, per la regia di Cobelli, al festival pucciniano di Torre del Lago. Ci pensavo tutto il tempo: «Cosa faccio?». Ma in realtà avevo già scelto.

Strehler è stato tuo insegnante?

Sì, per tre anni. Intanto noi allievi lavoravamo alle scene del fuoriporta e della cucina della strega del Faust, per poi finire gli studi con l’allestimento dell’Arlecchino servitore di due padroni, “edizione del buongiorno”; repliche al “Piccolo” di via Rovello, a Roma al teatro l’Argentina e pure tournée internazionale: sono stata Beatrice anche all’Opéra Garnier di Parigi… quella del Fantasma dell’Opera, per intenderci.

Come insegnante era diligente, metodico, puntuale?

A lezione c’erano spesso le telecamere di una qualche emittente straniera, all’epoca era ancora in piedi il progetto “Teatro d’Europa” che si articolava tra tre sedi principali, Milano, Madrid e Parigi.

Lui, comunque, era sempre se stesso, sempre libero: lo spirito che gioca. Per noi, con noi, e per l’operatore del broadcast europeo. Dovevamo solo riuscire a stargli dietro: praticamente impossibile.

Vi insegnava una materia specifica, che so: Storia del Teatro, Dizione…?

Ma no, si trattava di corsi maledettamente pratici! Con lui ci si esercitava in aula Brecht, la più grande della scuola in Via degli Angioli, ora rinominata Via Strehler. Le sue lezioni erano subito lavoro di scena. L’operazione Faust di Goethe cominciava a prender forma; nell’88 avrebbe debuttato. Ma tornando alla tua domanda, anche quando si era ancora in aula, era subito “teatro”, con lui. Infatti, poco alla volta, ci trasferimmo giù, negli spazi aperti del Teatro Studio.

In quanti allievi eravate?

Mi sembra fossimo in trentuno.

Per passare dall’aula al palcoscenico, sei stata evidentemente selezionata da lui?

Tutti gli allievi partecipavamo alle scene di massa del Faust, essendo quello l’esito naturale del progetto formativo. Certo, qualcuno se ne andò prima, e ad un certo punto anch’io feci l’errore di abbandonare il “Piccolo Teatro”.

Te ne sei pentita?

Sì, adesso non lo farei.

La tua esperienza con Strehler, prima nel Faust di Goethe, poi nell’Arlecchino di Goldoni la consideri la fase formativa più importante della tua esperienza teatrale?

Sì. Accompagnata da lui e dagli altri insegnanti: Marise Flash, Lydia Stix, Ferruccio Soleri stesso, Gianfranco Mauri, Enrico D’Amato – per dirne alcuni – ho intrapreso il viaggio in questo gioco strano che è stare in scena: tanta tecnica, pazienza e generosità. Eravamo immersi in un grande Teatro; questo non mi è capitato mai più. Il “Piccolo”, con Strehler, aveva un’unica potente anima, lui, il Maestro – esperienze al di là di quanto potessimo veramente comprendere.

Al prim’anno, alla Scala, stava allestendo il Don Giovanni di Mozart, direttore d’orchestra Riccardo Muti; e noi allievi rimpiazzavamo i coristi durante le loro pause, per aiutarlo nella costruzione registica.

In sala Copeau studiavamo il suo teatro, alcune opere storiche della sua regia – c’erano ancora i vhs.. E così ho conosciuto La Tempesta, L’anima buona, Campiello, Baruffe chiozzotte

E poi al “Piccolo” passava il miglior teatro internazionale – devi pensare che erano gli anni attorno la caduta del muro di Berlino, un’esplosione anche culturale… Assistetti, tra l’altro, a spettacoli di Kantor, un’intera rassegna con lui vivo e in scena, la Tempesta di Peter Brook, molto teatro tedesco…

Lavorando vicino a quel mito vivente, che impressione ne hai avuto: era, per esempio, un regista dispotico, un maestro arrogante o spocchioso?

Non direi: quando eri in scena, durante le prove, avevi sempre lui accanto, come la tua ombra, che faceva la scena assieme a te. Poi, la sera della prima, ti ritrovavi improvvisamente solo, senza quella presenza vicina: sentivi soltanto le tue parole e quelle dei tuoi colleghi, senza più le sue, che ti avevano accompagnato fino alla prova generale. Lui intanto camminava nervosamente nel sottopalco, imprecando perché non era mai soddisfatto. Non si tratta di essere dispotici, ma semmai pazzi, malati di Teatro ed essere con gli attori dentro lo spettacolo, il più possibile. Lui è stato, per tutta la vita, un maieuta. Ronconi, per dire di uno che avevo conosciuto in Accademia, ti consegnava una “partitura”, mentre Strehler ti lasciava assai più libero, ma fino all’ultimo minuto cercava di farti tirar fuori tutta la tua energia, che per lui non era mai abbastanza.

Sapresti dire qual è stata la sua idea di Teatro?

In primo luogo, per lui il Teatro era un luogo “popolare”, e questo ha segnato la maggiore differenza rispetto a quanto ho sentito all’Accademia nazionale a Roma.

Perché il Teatro milanese di quegli anni era così. C’erano ancora, anche se “invecchiati”, Dario Fo, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Quelli di Grock… Un clima culturale nella sua parabola discendente, certo, tuttavia molto forte. E io ho avuto l’opportunità di conoscerlo da dentro, in quegli anni di incredibile effervescenza creativa.

Ma com’è stato che te ne sei andata?

Perché a volte si fanno cazzate. Volevo ritornare a quel politeismo che avevo annusato anni prima a Roma, volevo forse emanciparmi. Boh!

Dopo quella tua esperienza al Piccolo Teatro di Milano hai avuto modo di lavorare con diversi altri registi, spesso anche di notevole rilievo nel mondo della Prosa.

Sì, i più importanti sono stati Gianfranco De Bosio, con cui ho fatto due Ruzante, poi Massimo Castri, con cui ho lavorato presso lo Stabile di Torino, Toni Servillo, sono stata con lui per Il lavoro rende liberi, Armando Pugliese, col quale ho collaborato in tre spettacoli. Ma anche il triestino Alessandro Marinuzzi,  e, al cinema, Marco Bellocchio.

E poi ho cominciato con la drammaturgia, ho cominciato a scrivere

Mi pare siano registi uno più diverso dell’altro, ma cosa ti è sembrato l’insieme delle tue esperienze con vari registi dopo il lavoro che avevi fatto con Strehler?

Ho dovuto presto rendermi conto di aver perso molte cose, assieme a lui. In primo luogo, il riferimento costante al pubblico, la centralità di quel rapporto che non ho mai percepito così forte. E poi, come dimenticare le sue luci, il palcoscenico vuoto.. nemmeno con Bob Wilson una sintesi così perfetta… Ogni tanto pensavo: questa è arte contemporanea, la migliore!

E tutto ciò era fatto per il pubblico, che in platea ci fosse un bambino o sua nonna oppure un esigente intellettuale. Lui non ha mai pensato a una regia come una relazione, un dialogo tra intellettuali; non era, mai, un teatro compiacente.

A me sembra di rinvenire in quanto mi stai dicendo una traccia, se vuoi la genesi, di quanto fai anche adesso sulla scena, quando sei più libera, o sei addirittura la regista di te stessa. Nel vederti recitare la “tua” Maria Farrar si percepisce fortemente che il rapporto che instauri col pubblico rivela l’impronta degli insegnamenti ormai lontani che ti hanno formata come attrice.

Mi fa veramente piacere che tu te ne sia accorto. Purtroppo è una modalità sempre meno frequente, relegata per lo più nel teatro comico, che presuppone un rapporto di condivisione col pubblico, mentre in altri ambiti si privilegia una dimensione intellettualistica. Infatti abbiamo perso il pubblico: come avviene per la politica, la gente si sente lontana, non è più veramente coinvolta nel gioco.