Il robot perturbante 10

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Conclusioni

di Giuseppe O. Longo

 

I robot sono ormai dappertutto ed eseguono molte attività al pari degli umani e talora meglio: dirigono orchestre, scrivono articoli, compongono poesie, giocano a golf, a calcio, a scacchi e a go, parlano, cantano, sbrigano le faccende domestiche, accudiscono infermi e anziani, eseguono interventi chirurgici, compiono salvataggi, disinnescano ordigni esplosivi ed esplorano luoghi impervi, inaccessibili o pericolosi.

Forse avvertiamo una forma nuova di perturbante, che ha a che fare con il nostro timore di essere sostituiti, forse spodestati, da questi artefatti sempre più invadenti e sempre più simili a noi per aspetto e funzioni. Un perturbante legato a ciò che di inquietante, estraneo, o addirittura pericoloso, può nascondersi nel cuore stesso della nostra identità. Di conseguenza perturbante è il doppio, il sosia, l’ambiguo, l’ammiccante: ciò che suscita diffidenza per la sua somiglianza quasi perfetta, che allude all’Altro ma anche a noi stessi. È il perturbante secondo la definizione di Schelling (il rimosso che doveva restare nascosto e che invece riemerge), ripresa poi da Freud, oppure è il perturbante descritto da Jentsch, collegato al dubbio e all’incertezza (incertezza se si tratti ancora di macchine o già di altro)?

Posti di fronte a questi nostri collaboratori, e un domani concorrenti, li riconosciamo come degni del nostro rispetto e della nostra simpatia perché ci somigliano tanto, oppure li rifiutiamo come sinistre incarnazioni di tratti rimossi che affiorano per toglierci la serenità e il buon umore? In fondo, per tornare al tema del sosia o del doppio caro a Freud, l’uomo artificiale rappresenta una nostra immagine più o meno deformata, che ci mostra ciò che potremmo essere o che potremmo essere stati. Ma, come nota Caronia, mentre l’automa del Settecento rassicura «riguardo all’eccellenza del corpo dell’uomo (così complesso da meritare di essere imitato) e della sua mente (così acuta da essere capace di realizzare quell’imitazione), il robot, l’androide, il cyborg della fantascienza annunciano invece il declino dell’uomo quale noi lo conosciamo […] e la nascita di un uomo nuovo, simbionte della creatura che egli stesso ha costruito ma ormai in qualche modo autonomizzata».

Si ripropone qui un interrogativo che negli ultimi tempi è diventato sempre più pressante: come si distingue un uomo da un uomo artificiale? Ovvero un uomo da un post-uomo? [19] La fantascienza ha ipotizzato un passaggio dall’uomo alla macchina passando per il ciborg e per il robot androide; e viceversa dalla macchina all’uomo passando per il robot e per il simbionte. Questo duplice passaggio non è più soltanto tema di racconti o film fantascientifici o di speculazioni filosofiche, ma è ormai oggetto anche di ricerche scientifiche e attuazioni tecniche.

Tutti questi esseri, scaglionati lungo il percorso che va dall’uomo alla macchina, reclamano una definizione della loro identità: finché l’uomo era il solo rappresentante dell’umanità ed era nettamente distinto dalle macchine elementari di un tempo, il problema dell’identità non si poneva; ma oggi, con la comparsa di congegni e apparecchi sempre più complessi, il confine tra uomo e macchina tende a sfumare, o meglio la zona di transizione si amplia ad ospitare una famiglia di creature “intermedie”, che si distribuiscono secondo una tassonomia non necessariamente lineare, che tende al continuo ed è animata da spunti evolutivi, da intrecci e interfecondazioni ibridative. E tutti questi esseri intermedi sembrano esigere non solo la qualifica di sosia o doppi più o meno legittimi dell’uomo, ma pretendono anche una considerazione del loro statuto etico: non più solo le leggi di Asimov e neppure solo la roboetica, ma anche una “simbioetica”, dove il termine simbionte tende a moltiplicarsi e a differenziarsi per indicare una famiglia proliferante di mostri speranzosi e di enti informi o quasi perfetti (rispetto al modello che, per il nostro vizio antropocentrico, è sempre l’uomo), i quali si affacciano al teatro dell’esistenza: un’esistenza forse transitoria, addirittura effimera, che può trapassare facilmente nella non esistenza per far posto ad altri enti. E questa provvisorietà potrebbe un giorno coinvolgere anche l’uomo come lo conosciamo oggi: forse questo pensiero, riportando alla luce ciò che avevamo rimosso, la nostra transitorietà, è ciò che desta in noi il perturbante quando ci specchiamo nelle creature che abbiamo costruito.

 

(10. Fine)

 

 

 

Riferimenti bibliografici dei testi consultati e citati

 

Calvino, I., a cura di, (2015). Racconti fantastici dell’Ottocento, Mondadori.

Caronia, A. (2001). Il cyborg, Shake.

Freud, S. (1969). “Il perturbante”, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, I, Boringhieri.

Gallina, P. (2015). L’anima delle macchine, Dedalo.

Grimm, J., Grimm, W. (1877). Deutsches Wortërbuch, Hirzel.

Hoffmann, E. T. A. (1950). L’uomo della sabbia e altri racconti, Rizzoli.

Hoffmann, E. T. A. (1957). I Fedeli di San Serapione, Gherardo Casini.

Kageki, N. (2012). “An Uncanny Mind: Masahiro Mori on the Uncanny Valley and Beyond”, intervista, IEEE Spectrum: http://spectrum.ieee.org/automaton/robotics/humanoids/an-uncanny-mind-masahiro-mori-on-the-uncanny-valley

Longo, G. O. (2006). “Dal golem al robot”, Prometeo, 95.

Longo, G. O. (2007). “L’etica al tempo dei robot”, Mondo Digitale.

Longo, G. O. (2006). “Il poliedrico mondo dell’informazione”, Mondo Digitale.

Longo, G. O. (2013). “Paesaggi del post-umano”, Mondo Digitale, 45.

Longo, G. O. (2009). “Il test di Turing: storia e significato”, Mondo Digitale.

Losano, M. G. (1990). Storie di automi, Einaudi.

Meyrink, G. (2000). Il Golem, Bompiani.

Mori, M. (1970). “Bukimi no tani”, Energy.

Nowotny, H., Testa, G. (2012). Geni a Nudo, Codice.

Tagliasco, V., (1999). Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali, Mondadori.

Sanders, D. (1876). Wörterbuch der deutschen Sprache, Otto Wigand.