Gino Paoli. Senza fine.

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Approdato alla Contrada il recital di Gino Paoli e Danilo Rea

di Walter Chiereghin

 

Non dovrei essere io a scriverne, d’accordo: ho scarse lacunose competenze in materia di musica, tutte rigorosamente poco aggiornate e assolutamente non supportate da una cultura di base dotata almeno di un’apparenza di solidità. Tuttavia, stasera, appena rientrato dal concerto tenuto da Gino Paoli e Danilo Rea al Teatro Bobbio, ho abusato della mia funzione di direttore per concedermi di dar corpo con queste righe alla gratitudine per aver partecipato a un concerto che è riuscito ad arare solchi profondi nella mia memoria e, a quanto mi è stato dato di percepire, anche a quella del resto del pubblico che ha tributato scroscianti prolungati applausi equamente suddivisi tra il cantante e il pianista.

Tornando a casa, nelle orecchie e in testa i ritornelli di alcune delle canzoni della serata, ho ripensato ad altre due occasioni nelle quali ho incontrato dal vivo le canzoni di Paoli. La più recente, che risale comunque a molti anni fa, fu alla Fenice di Venezia, prima che il fuoco divorasse il teatro nel gennaio del 1996, in un memorabile concerto, lui insieme a Ornella Vanoni sul palcoscenico, io insieme a mia moglie in loggione. ma ancora molti anni prima, nel manicomio di San Giovanni, mentre la riforma di Basaglia aveva cominciato da poco a smantellarlo come reclusorio, lui da solo, io assieme a una ragazza di cui mi sfuggono ora i lineamenti e il nome. Lui, cantautore già affermato, s’era avventurato in quella “gabbia di matti” a portarvi la sua musica e la poesia dei suoi testi, nascondendosi dietro gli occhiali da sole che costituivano allora quasi un suo logo, e che la voce imperiosa di un assistito (erano maggioritari nella piccola sala i cosiddetti “matti” rispetto a noi cosiddetti “normali”) gli aveva imposto di togliere, forzando la ritrosia del cantante.

Oggi, un ottantenne carico di carisma, come ti accorgi dopo qualche secondo della sua entrata in scena, al punto che si smarrisce immediatamente ogni perplessità rispetto al suo essere assai poco irreprensibile, per i burrascosi trascorsi personali, per alcuni dettagli non in linea con gli orientamenti del politicamente corretto (anche stasera, fumando in scena, ha ridicolizzato i nemici del fumo e le tardive denunce di molestie sessuali), per le accuse di evasione fiscale che gli sono piovute addosso due anni fa. La musica, il timbro inconfondibile della sua voce hanno ben presto avuto ragione di ogni riserva, inducendo gli spettatori ad abbandonarsi al fluire delle sensazioni che quella voce, quell’energica e magistrale esecuzione al pianoforte, fanno scivolare in chi ascolta.

Comincia subito a stupire la selezione dei brani proposti, con quello d’apertura affidato a Gaetano Donizetti e al suo L’elisir d’amore: la romanza Una furtiva lagrima, interpretata senza nessun compiacimento melodrammatico da un Paoli che segna con quel suo incipit cantato con piana leggerezza il perimetro di un confine assai dilatato al suo concerto, che includerà difatti non soltanto canzoni del suo repertorio più collaudato, ma anche musica di generi diversi. Come a dire che la musica, al pari della poesia, è insofferente ai compartimenti stagni e si trova a suo agio dove più le aggrada. È così che stasera largo spazio è stato dato, per esempio, alla canzone napoletana, da ‘O sole mio a Reginella, fino a una toccante interpretazione di Passione, la canzone scritta da Libero Borio nel 1934 (Te voglio, te penso, te chiammo / te veco, te sento, te sonno… un ritornello citato anche nel titolo di un memorabile racconto di Antonio Tabucchi), ma dove entrerà anche Jacques Prevert con un grande classico quale Les feuilles mortes, portate al successo internazionale da Edith Piaf e poi da Juliette Greco e ancora da Yves Montand. E, inevitabilmente, le citazioni degli altri colleghi che con Paoli hanno dato corpo alla “scuola genovese” di cantautori, da Luigi Tenco a Fabrizio de Andrè, da Umberto Bindi a Bruno Lauzi. Per alcuni di essi, la riproposizione di successi dal sapore vagamente archeologico, ma che invece sembrano legate strettamente al nostro presente (penso in particolare a Vedrai vedrai, di Tenco, il racconto discorsivo e drammatico di una frustrazione che anche oggi dovrebbe pur dire qualcosa ai giovani così segnati da una perdurante precarietà lavorativa). In particolare per questi amici cantautori il ricordo di Paoli è ancorato a “quello che hanno dato, non a quello che hanno preso, che non conta. E quello che han dato sono delle canzoni”, affidando a Rea il compito di evocarne la memoria improvvisando un florilegio alla tastiera che ha riscosso l’entusiastica adesione del pubblico presente in sala.

Già, perché è da dire che la funzione di Danilo Rea nello spettacolo non è, né poteva limitarsi ad essere, quella di accompagnamento, ma – nel ruolo che gli spetta per essere uno dei protagonisti del jazz italiano dagli anni Settanta in qua – parte essenziale del programma, dialogante con il cantante in una condivisione paritaria dello spazio scenico materiale ed emozionale. Un’interpretazione, quella di Rea, che riesce sempre a conformarsi ai brani non secondo una semplice adesione al testo musicale, ma facendone una nuova personale lettura in grado di mettere in evidenza, anche attraverso discreti assolo di grande qualità, un piano di lettura nuovo e originale per testi che assumono nelle sue elaborazioni ancora un’altra stagione di vivace attualità sonora.

Sono così affrontati con brio brani come La gatta, riproposti e, se possibile, arricchiti, altri testi, dal meditativo Sassi alla narrazione di Albergo ad ore, al grande classico della storia della canzone italiana, quel Cielo in una stanza che, portato a un clamorosa prolungato successo da Mina, ha accompagnato gli incontri d’amore di milioni di uomini e donne.

Poi, naturalmente, Sapore di sale, ispirata pare da un’estate con Stefania Sandrelli ancora minorenne, ma evocativa per tutti noi, credo anche per più generazioni, di altre spiagge, di altre estati, di altre ragazze. E nei bis, richiesto a gran voce, Senza fine, quando ci siamo accorti che mancava almeno quella all’inventario, che non era semplicemente quello della discografia essenziale di un grande interprete, ma in definitiva un importante anello di una catena che attraversa oltre mezzo secolo di musica e parole. Per molti di noi, la colonna sonora della nostra vita.